Nell’ambito della rubrica “Secondo Giustizia“, nuovo articolo a firma dell’avvocatessa penalista Donata Posante. La rubrica nasce dall’idea di una giustizia efficace, che metta il lettore difronte ad una lettura critica sull’azione penale, il diritto alla difesa di fronte ai tempi lunghi del giudicato, ed una tutela dalla potente macchina di dolore umano.
Il tema della responsabilità penale degli esercenti una professione sanitaria è uno dei più interessanti ed anche controversi dell’intero sistema penale e sociale.
Non solo perché investe questioni cruciali e dibattute della scienza penalistica ma anche e soprattutto perché, intuitivamente, riguarda l’individuo nell’insperata, ma purtroppo possibile, esperienza di paziente.
Il fiume in piena del complesso rapporto medico – paziente è defluito, con tutte le sue tensioni, primariamente nel diritto e nel processo penale, in esso esprimendosi, forse in taluni casi impropriamente, tutte quelle tensioni derivanti dalla contrapposizione di soggetti, gioco forza diversi.
Tensioni cui ha tentato di porre rimedio ed equilibrio – in parte invano ci segnala l’ultima giurisprudenza sul tema – la legge Gelli Bianco.
Con essa si è tentato da un lato di ridimensionare il dilagare della cosiddetta medicina difensiva accogliendo le istanze di quei medici, anzi, di quegli esercenti una professione sanitaria, che chiedevano una maggiore prevedibilità delle conseguenze derivanti dal proprio agere conforme al rispetto delle “regole dell’arte”. Ma la legge 24 del 2017 ha necessariamente dovuto accogliere le istanze di legittima tutela dei pazienti e dei loro familiari evidentemente e giustamente non appagate dalla esclusione di responsabilità per colpa lieve prevista, solo per gli esercenti la professione sanitaria, dal Decreto Balduzzi.
Fin qui tutto diritto, tutto scritto, tutto tecnico, tutto giusto o forse no.
Ma al lettore – paziente ed ai suoi familiari, non interesserà sapere quali complessi ed in parte infruttuosi risultati giuridici sono compendiati nella riforma legislativa.
Al lettore – paziente, o purtroppo in alcuni casi solo ai suoi familiari, interessa sapere come tutelarsi.
Certo di questa tutela legale non ci sarebbe bisogno o ci sarebbe bisogno in misura minore (perché bisogna ricordarlo il medico non è un mago) se il rapporto medico paziente fosse improntato sin dall’origine all’ascolto vero e reciproco.
Del consenso informato, scritto, fornito con indifferenza rispetto a chi ci si trova dinanzi, il paziente, il malato, ci fa poco, a voler essere eleganti.
Il malato ha bisogno di essere ascoltato, perché è a partire dall’ascolto che la diagnosi può essere indirizzata; così che se un paziente riferisce di essere appena tornato dal Nepal o dall’Africa o dalla Cina – per essere maggiormente attuali – e di avere sintomi specifici che fanno pensare ad una malattia contratta in quelle regioni, il medico, l’operatore sanitario, dovrebbe sapere dove indirizzare la sua attenzione diagnostica.
Se un paziente ritorna in ospedale dopo una lunghissima degenza dicendo di sospettare una ricaduta, il medico dovrebbe prima di tutto ascoltarlo con rispetto prima di sentenziare che si tratti di un bisogno psicologico di protezione che solo l’ospedale può fornire, luogo di cui quasi tutti i malati soffrirebbero la mancanza dopo una lunga degenza. Prima di rimbalzarlo a casa con il rischio, concretizzatosi, di un grave peggioramento. Prima di fargli credere di essere malato di testa e non solo nel corpo. Di essere affetto da una sorta di sindrome di Stoccolma (con tutto il rispetto per il medico certo non aggressore ma non conosco altre sindromi note in letteratura), dei reparti ospedalieri.
Il malato ha bisogno di essere “indirizzato” con rispetto per colmare l’asimmetria informativa che necessariamente sconta rispetto al sapere specialistico del medico ed al suo spazio privilegiato di osservazione.
Senza queste ineliminabili premesse, senza la comprensione dell’importanza del rapporto tra curante e curato, la medicina, sempre più capace di guarire grazie all’evoluzione della tecnologia medica, alla ricerca specialistica, è scienza destinata a fallire, è medicina sganciata dai bisogni di salute della persona, diventa svilente laboratorio di quello che leggiamo quasi ogni giorno sui giornali:malasanità, materia da avvocati e Tribunali.
Ma anche il medico ha i suoi bisogni soprattutto di tutela. I medici hanno spesso meriti grandi, enormi, almeno quanto la loro responsabilità e nella maggior parte dei casi, bisogna riconoscerlo, non adeguatamente “sponsorizzati” al pari della loro mala gestio. Anche al medico bisogna concedere l’eventualità che possa non guarire la malattia, non risolvere “quel problema”. Del resto, come detto, il medico non è un mago e non può essere sempre un salva vita, essendo solo il portatore di una scienza alta e specialistica, quasi aulica, ma umana e fallibile. La sua obbligazione, per tornare al diritto, non sempre può essere un’obbligazione di risultato, ma è anche un’obbligazione di mezzi. E questo il paziente dovrebbe ricordarlo per frenare l’impulso ad una denuncia facile che ha finito per avvilire e tradire quell’alleanza comunicativa e terapeutica tra lui e chi lo ha preso in cura, alcune volte egregiamente.
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