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Home » Altro » Dentro San Vito: il racconto di chi c’era

Dentro San Vito: il racconto di chi c’era

Domenico Vecchio Di Domenico Vecchio
5 Giugno 2025
in Altro
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Agrigento, l’ex educatore torna nel carcere di San Vito: “Qui si moriva dentro”

Agrigento – C’è un corridoio, nel vecchio carcere di San Vito, che misura poco più di trenta metri. Oggi è vuoto. Ma un tempo – ricorda chi ci ha lavorato per vent’anni – era diviso da 45 separatori metallici, creati per evitare scontri tra i detenuti. È in quel passaggio stretto che Antonio (nome di fantasia), ex educatore penitenziario, è tornato per la prima volta dopo trent’anni. Con passo lento, e la memoria che riemerge come un’onda.

“Sono entrato qui il 18 dicembre del 1977. Facevo il militare. Poi ho vinto un concorso per educatore. Ho vissuto il carcere fino alla sua chiusura nel ’96. E oggi, camminare qui dentro, fa riaffiorare tutto. Ogni ruga di questo posto racconta qualcosa.”

Il carcere di San Vito non era un luogo di rieducazione. O meglio: non lo è mai diventato davvero. “Si parlava di riforma – racconta – ma le condizioni materiali non lo consentivano. Ricordo perfettamente la cisterna dell’acqua, lì dietro la cucina, insufficiente a soddisfare i bisogni crescenti. Uno dei motivi che spinse il prefetto Di Natale ad accelerare la chiusura.”

C’erano anche donne, madri con figli. Una sezione femminile separata, ma mai realmente adeguata. “La popolazione carceraria cresceva. Non c’erano spazi. E i corridoi si stringevano come le possibilità.”

Educatore prima, capo area poi, ha vissuto anche l’altra metà del sistema: quello della nuova struttura in contrada Petrusa. “Sembrava un Eden. Ci credevamo. Abbiamo creato il laboratorio dell’alberghiero, grazie a un lavoro con il direttore Brancato e la preside Sammartino. Avevamo 170 studenti in carcere. Tantissimi si sono diplomati.”

Ma la vera rieducazione non sta in una sigla. Sta nella volontà. E nella possibilità. “Un ragazzo catanese rimandò la sua udienza pur di fare l’esame di Stato. Lo fece. E poi uscì. Ma casi così sono rari. Perché il sistema oggi non funziona. Non bastano gli educatori. Servono psicologi, criminologi, un lavoro corale. Invece manca tutto.”

Il sovraffolamento. “Vicino alla struttura c’era l’unico campo in erba naturale di Agrigento. Era a Petrusa. È stato distrutto per far posto a un padiglione che oggi è solo uno scheletro incompiuto. Dove potevano esserci attività per i detenuti, oggi c’è abbandono.”

Il tono si fa amaro. “In carcere si muore. E non solo i detenuti. Muore anche il personale, logorato da turni impossibili, stress, mancanza di diritti. Ho fatto il sindacalista anche per loro. Ma oggi è tutto peggio.”

Cambia anche il profilo del detenuto. “Negli anni Settanta era un tipo di criminalità. Poi è cambiata. Ora sono più istruiti, ma anche più spavaldi, più esigenti. E spesso non ci sono gli strumenti per gestire le relazioni.”

E poi c’è la riflessione amara sull’Italia. “In questo Paese la pena non educa. Si chiude dentro, si butta la chiave. Ma il carcere non può essere solo cemento. Non può essere impermeabile. Bisogna creare relazioni, spazi di umanità, altrimenti si esce peggio di come si entra.”

Oggi, rientrando a San Vito, l’ex educatore guarda le pareti che un tempo sentiva vibrare di rabbia e di speranza. “Riaprire questo posto è stato importante. Rivederlo vivo, pieno di idee, fa bene. Ma bisogna ricordare cosa è stato. E capire che non basta aprire una porta: bisogna decidere cosa farne.”

Nel cortile oggi si parla di arte, di rigenerazione, di futuro. Ma dietro ogni pietra, restano le ombre del passato. E la consapevolezza che educare, davvero, resta l’unica forma possibile di giustizia. Leggi anche: Da carcere a capitale

Ascolta l’intervista in video

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