C’è voluto uno smisurato coraggio per portare sul grande schermo una personalità come quella di Freddie Mercury, eppure l’esperimento sembrerebbe essere riuscito, e anche bene, con il film “Bohemian rhapsody”,nelle sale da questo weekend. In verità la pellicola non è una biografia su Freddie Mercury, ma racconta la storia dei Queen- nome scelto dallo stesso Mercury- dalla nascita nel 1970 fino al trionfale concerto del live Aid allo stadio Wembley di Londra nel 1985.
All’inizio si pensò di affidare l’incarico di interpretare Mercury all’attore americano di religione ebraica Sacha Baron Cohen che fu contattato e alla fine declinato. Così la responsabilità è finita sulle spalle di Rami Malek.
Lo spazio interpretativo dell’attore è davvero esiguo e costantemente ipotecato dal rischio letale dell’imitazione, per di più si trova sotto lo scacco del paragone dal vero Mercury da parte di milioni di fan che idolatravano e idolatrano la rockstar.
L’istrionismo glamour dell’artista nativo di Zanzibar, la sua potenza trasgressiva morbida in qualche modo rassicurante, quasi tenera, la sua qualità canora, il suo tumultuoso stile di vita, si sono rivelati impresa anche per un regista sperimentato come Brian Singer che peraltro, verso la fine delle riprese, è stato licenziato dalla casa di produzione, anche se la firma resta la sua.
Non deve essere stato facile riportare ad unità narrativa un personaggio della statura di Mercury che nei fatti era doppio: lo scatenato frontman dei Queen e il misterioso zoroastriano dalla turbolenta vita privata. Scrutare nel fondo di Mercury significa calarsi in profondità insondabili, ma per fortuna ci sono le sue canzoni che lo hanno reso immortale e insieme alla sua band un campione della musica di tutti i tempi.