Uno spettacolo che riflette sull’invadenza della tecnologia nelle relazioni umane, rovinato — almeno in parte — proprio dalla tecnologia stessa. È questo il grande paradosso che ha accompagnato Perfetti Sconosciuti, lo spettacolo firmato da Paolo Genovese andato in scena con due repliche sold out al Teatro Pirandello di Agrigento.
Sul palco, una tavola imbandita e sette amici che decidono, per gioco, di mettere i propri smartphone sul tavolo e condividere pubblicamente ogni messaggio o telefonata ricevuta. Un’idea tanto semplice quanto dirompente, che nel film ha conquistato il mondo e che in teatro diventa materia viva, tra sguardi, silenzi, tensioni ed emozioni autentiche.
Peccato, però, che qualcuno in platea abbia deciso di giocare una partita tutta sua, più interessato allo schermo del proprio cellulare che alla magia del palcoscenico. Notifiche, display che si illuminano, scroll nervosi, video registrati di nascosto. Tutto mentre, in scena, si racconta l’esatto opposto: il bisogno di autenticità, il valore del non detto, la violenza della condivisione forzata.
Un gesto di distrazione? Forse. Ma anche una grave mancanza di rispetto verso chi è sul palco, verso chi ha pagato un biglietto per assistere in silenzio, verso l’arte in sé. Perché gli attori vedono tutto. Anche dal palco. E no, non sempre fanno finta di niente. Anzi, spesso restano infastiditi, deconcentrati, colpiti da quella luce blu che spezza la quarta parete con una crudeltà disarmante.
Il teatro è un patto. Un’intesa silenziosa tra chi racconta e chi ascolta. E in questo patto il cellulare non è previsto. Perfetti Sconosciuti ci ha ricordato quanto possa essere pericolosa una notifica fuori posto. Ma, evidentemente, qualcuno non lo ha capito nemmeno dopo due ore di grande teatro.
Un applauso, allora, alla compagnia — Dino Abbrescia, Emmanuele Aita, Alice Bertini, Paolo Briguglia, Paolo Calabresi, Lorenza Indovina e Valeria Solarino — capace di regalare due serate di altissimo livello. E un invito — questa volta senza ironia — a lasciare il cellulare in tasca. Per rispetto. Per amore del teatro. Per non essere, ancora una volta, dei perfetti sconosciuti… a se stessi.
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