Per non dimenticare, il 4 aprile di 29 anni fa, l’agguato al maresciallo dei carabinieri, Giuliano Guazzelli.
“Quando andrò in pensione – diceva a tutti – mi metterò seduto sotto il carrubo nella mia campagna di Menfi, a scrivere un libro sulla mafia”. Un libro che il maresciallo dei Carabinieri, Giuliano Guazzelli, non è mai riuscito a scrivere. Sotto quel carrubo parecchi anni prima, lo stesso maresciallo aveva portato il suo amico e superiore, il colonnello Giuseppe Russo, poi ucciso in un agguato di mafia alla Ficuzza, e anche a lui aveva confidato di voler scrivere “il grande libro”. Sono trascorsi 29 anni da quel 4 aprile 1992 quando il sottoufficiale venne assassinato sul viadotto Morandi. Barba incolta, sempre in abiti borghesi, con quelle magliette e quei jeans stropicciati che gli davano un’aria trasandata, Giuliano Guazzelli venne ucciso in quel tratto di strada che percorreva ogni giorno, a quell’ora, per fare ritorno a casa. Era un investigatore che indagava in tutte le direzioni e manteneva stretti contatti con il giudice Paolo Borsellino; rapporti che erano divenuti più frequenti quando il giudice, da Palermo, andò a dirigere la Procura della Repubblica di Marsala, città di frontiera dove imperava la famiglia mafiosa della Valle del Belice. Il giorno dell’agguato era da poco trascorso mezzogiorno quando il maresciallo Guazzelli, lasciato il suo ufficio presso il Tribunale, era messo alla guida della sua vecchia Fiat Ritmo. A fine viadotto l’auto del sottoufficiale venne sorpassata da un furgoncino bianco “Renault Express” dal quale partirono i micidiali colpi di kalasnikov. Un’azione fulminea di pochi attimi. Poi l’allarme immediato, dato dagli abitanti di alcune palazzine di Monserrato che si affacciano sul viadotto, e l’arrivo sul posto delle forze dell’ordine. Tra i primi ad arrivare il colonnello Giuseppe Arena, all’epoca comandante del Gruppo Carabinieri di Agrigento, suo diretto superiore. Osserva il corpo del suo sottoufficiale crivellato di proiettili dentro quella vecchia auto che, senza più controllo, era finita contro il guard-rail e si lascia andare ad una reazione rabbiosa. Poi una mano pietosa stese un velo sul parabrezza di quell’auto dai vetri infranti, per cercare di coprire alla vista, l’orribile scena del maresciallo con il capo chinato e la maglietta bucata e sporca di sangue. Qualche ora dopo arrivò sul viadotto anche il giudice Borsellino che nel ’92 non era più procuratore a Marsala ma svolgeva la funzione di procuratore aggiunto a Palermo. Era molto teso il giudice, e convocò in serata un primo vertice in Prefettura ad Agrigento per fare il punto sulle indagini. Scuro in volto il magistrato, ai giornalisti che insistevano con le domande, si limitò a dire: “Hanno spento la nostra memoria storica sulla mafia!”.
LORENZO ROSSO
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