È stata presentata la relazione al Parlamento della Dia, Direzione investigativa antimafia, relativa al semestre che va dall’1 gennaio al 30 giugno dello stesso anno. Di seguito la relazione per l’attività svolta dal personale della Dia in provincia di Agrigento. “Nella provincia di Agrigento è ormai assodata la presenza di Cosa nostra e della Stidda. Si tratta di due realtà mafiose distinte e entrambe storicamente radicate nel territorio che hanno raggiunto un livello di convivenza finalizzato alla risoluzione di problematiche comuni, nonché alla individuazione e alla spartizione delle attività criminali da perpetrare sul territorio di competenza. In alcuni comuni della provincia girgentina inoltre risulterebbero essere attivi gruppi su base familiare quali le famigghiedde (a Favara) e i paracchi (a Palma di Montechiaro) che agiscono secondo le tipiche logiche mafiose non contrapponendosi a cosa nostra e alle consorterie stiddare e addirittura agendo spesso d’intesa con le stesse o in ruoli di cooperazione ovvero subalternità”.
Al riguardo nel semestre preso in esame appare significativa l’operazione “Oro bianco” che ha accertato l’operatività del paracco di Palma di Montechiaro. Giova evidenziare che il provvedimento in parola si sofferma sull’aspetto dell’indipendenza del paracco definendolo come un gruppo criminale che “…presenta tutte le caratteristiche tipiche di una associazione a delinquere di stampo mafioso, distinta ed autonoma rispetto all’associazione Cosa nostra”. In particolare l’indagine ha consentito di evidenziare la struttura organizzativa della consorteria suddivisa nei distinti ruoli di capo, vice capo, capo consiglio, capogruppo, capodecina e soldati. Oltre a documentare i rapporti diretti con gruppi criminali calabresi e Cosa nostra palermitana, per l’approvvigionamento dello stupefacente. L’attività investigativa ha appurato inoltre la capacità di infiltrazione del gruppo nell’Amministrazione comunale di Palma di Montechiaro attraverso l’elezione di un proprio capodecina, “…frutto del solido sostegno ricevuto dai membri dell’associazione i quali avevano interesse ad avere un proprio uomo di fiducia all’interno del consiglio comunale che garantisse la tutela degli interessi dell’associazione”.
La struttura di Cosa nostra agrigentina tuttora suddivisa in 7 mandamenti, nel cui ambito opererebbero 42 famiglie, ha fatto registrare alcune variazioni emerse da una recente attività investigativa che ha documentato il “transito” della famiglia mafiosa di Licata dal mandamento di Palma di Montechiaro a quello di Canicattì. In seno alla realtà criminale della provincia agrigentina Cosa nostra continua a rivestire un ruolo di supremazia, evidenziando un’organizzazione strutturata in maniera verticistica da sempre ancorata alle tradizionali regole mafiose e in stretta connessione con le omologhe articolazioni mafiose catanesi, nissene, palermitane e trapanesi del resto non disdegnando di intrattenere rapporti anche con realtà criminali “oltre lo Stretto”. Assunto questo confermato, oltre che da pregresse attività investigative, anche dagli esiti della citata operazione “Xydy”, conclusa il 2 febbraio 2021 e incentrata sul mandamento di Canicattì dalla quale sono emersi “…continui e strettissimi…” contatti tra alcuni esponenti di quel mandamento con sodali di altre province siciliane, finalizzati alla organizzazione e alla gestione di lucrosi affari (Da quanto emerso dall’indagine, il mandamento di Canicattì risulterebbe essersi accaparrato “…il controllo e lo sfruttamento del lucrosissimo settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli da parte degli imprenditori operanti in provincia di Agrigento. Chiaro il duplice obiettivo così perseguito: quello di accaparrarsi ingenti somme di denaro destinate ad implementare le casse dell’associazione senza ricorrere ad attività (quali ad esempio il traffico di sostanze stupefacenti) ben più rischiose sotto il profilo giudiziario e quello parimenti vitale di presidiare (anche militarmente) il principale ambito commerciale ed economico dei territori ricadenti nella provincia agrigentina, provincia dal punto di vista economico ancora saldamente legata al mercato agroalimentare quale fonte quasi unica ed esclusiva della ricchezza di quella terra”).
Tale aspetto “…offre rinnovata conferma del ruolo fondamentale rivestito delle cosche agrigentine nelle dinamiche dell’intera Cosa nostra isolana. È stata riscontrata infatti “…una eccezionale ed ininterrotta sequenza di riunioni…” svoltesi nell’arco di circa due anni proprio sul territorio agrigentino, “…intrattenute tra esponenti di vertice di Cosa nostra, anche appartenenti a province diverse”. Meeting mafiosi che hanno consentito di “…fotografare con lampante evidenza la perdurante unicità dell’intera associazione mafiosa…” che, nonostante le continue attività repressive susseguitesi nel tempo e le numerose conseguenti condanne inflitte agli appartenenti risulterebbe “…avere mantenuto integra la sua sotterranea capacità di collegamento tra le diverse articolazioni territoriali”. Al riguardo il provvedimento definisce “ davvero impressionante l’efficienza con la quale gli esponenti di vertice delle diverse province mafiose di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania e Palermo, riescono a mantenere riservati contatti e ad esprimere la capacità di garantirsi, all’occorrenza, reciproco appoggio in ossequio alla basilare regola associativa della mutua assistenza.”. Nello sviluppo dell’indagine inoltre è emerso che l’“unicità” di Cosa nostra siciliana va ben oltre i confini regionali. Essa appare “…a tutt’oggi a tal punto solida da permeare non soltanto le diverse cosche siciliane tra loro ma anche i rapporti tra queste e Cosa nostra statunitense”.
In tale ottica, è stato documentato l’incontro a Favara tra uomini d’onore siciliani e alcuni soggetti ritenuti appartenere alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York i quali hanno proposto agli omologhi siciliani“…l’attivazione di una lucrosa ed articolata sinergia criminale transnazionale”. Infine l’investigazione ha disvelato la “rinnovata” presenza, nell’area territoriale del mandamento di Canicattì della Stidda che risulterebbe “…essersi ricostituita e ricompattata intorno alle figure degli ergastolani semiliberi…omissis…” e proiettatasi in una competizione allo stato pacifica con cosa nostra soprattutto nel redditizio settore delle mediazioni nel mercato ortofrutticolo, con particolare riferimento alla compravendita di partite di uva quindi in seno a uno dei pochi settori produttivi nella provincia di Agrigento. In tale contesto tuttavia sono emerse pericolose “frizioni” tra esponenti ai vertici del mandamento di Canicattì e alcuni soggetti della criminalità organizzata di matrice stiddara operante a Palma di Montechiaro. Quest’ultimi “…disattendendo le direttive impartitegli dai loro stessi referenti palmesi di Cosa nostra…” hanno compiuto nel tempo una serie continua di azioni di disturbo sul territorio di competenza del mandamento mafioso di Canicattì, al fine di “…affermare il loro personale controllo sulle operazioni di mediazione per la compravendita di partite d’uva.”. Tali avvenimenti potrebbero nel tempo accentuare le pericolose e sottaciute frizioni tra le organizzazioni in parola. Contrasti potrebbero derivare anche dal ritorno sul territorio d’origine di boss e gregari che una volta espiata la pena potrebbero essere intenzionati a riconquistare il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione. Lo confermano nel tempo alcuni contrasti emersi e che a volte sono sfociati in episodi di violenza.
Negli ultimi anni poi si evidenzierebbe sempre più una sorta di “emigrazione criminale” della mafia agrigentina favorita dalla volontà di alcuni soggetti di trasferire i propri interessi illeciti laddove il fenomeno mafioso risulta ancora occulto. I reati cardine sui quali si impernia l’azione mafiosa sono sempre i medesimi. Nella quasi totalità delle attività investigative poste in essere emergono eventi estorsivi che rappresentano alla pari del traffico di sostanze di stupefacenti una fonte primaria di sostentamento oltreché un importante strumento di controllo del territorio. Al riguardo la stessa operazione “Xydy” ha messo in luce il cosiddetto fenomeno della “messa a posto” così come evidenziato in un passaggio del relativo provvedimento: “nel corso della riunione si discuteva della “cassa” comune del mandamento mafioso ove giungevano i proventi delle estorsioni da destinare al sostentamento dei sodali detenuti.”. Sebbene nel semestre non si evidenziano riscontri operativi riguardanti il settore del controllo del gioco d’azzardo, esso attira oramai da anni l’attenzione e l’interesse delle consorterie.
Le mafie tradizionalmente opportuniste e costantemente alla ricerca di nuove modalità di arricchimento considererebbero lo specifico settore sia fonte primaria di guadagno al pari del traffico di stupefacenti, delle estorsioni e dell’usura, sia uno strumento che ben si presta a qualsiasi forma di riciclaggio. L’operazione “Waterloo” conclusa il 23 giugno 2021 ha consentito di appurare gravi forme di illegalità diffuse nella provincia ad ogni livello e riguardanti la gestione di “Girgenti Acque”, la società di distribuzione idrica. Le indagini avviate nel 2014, e curate da un pool interforze composto dalla Dia, dai Carabinieri e dalla Guardia di finanza hanno svelato una “gestione criminale” dei vari rami d’azienda posta in essere dalla governance della società accusata di associazione per delinquere finalizzata alla perpetrazione di delitti contro la Pubblica Amministrazione, frode in pubbliche forniture, furto, ricettazione, reati tributari, societari e in materia ambientale, nonché truffa ai danni di privati. L’azienda era stata colpita da una certificazione antimafia interdittiva nel novembre 2018 per l’accertato rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata attraverso gli esponenti che detenevano la maggioranza delle quote sociali.
Non va poi sottaciuta la capacità della mafia agrigentina di orientare le scelte degli Enti locali per l’aggiudicazione degli appalti pubblici attraverso l’infiltrazione, il condizionamento o la corruzione. Pratiche che hanno condotto nel corso degli ultimi anni allo scioglimento di diversi Comuni. Nel contesto criminale agrigentino continuano infine a operare gruppi di matrice etnica per lo più maghrebini, egiziani e rumeni tollerati dalla mafia in quanto dediti a illeciti non di diretto interesse mafioso quali il riciclaggio di materiale ferroso, lo sfruttamento della prostituzione e lo spaccio al dettaglio di sostanze stupefacenti.