Oltre Palermo, Santa Margherita Belice e Palma di Montechiaro sono le località che rappresentano gli scenari più autentici delle pagine de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, scrittore di un solo romanzo, forse tra i più amati al mondo. Luoghi suggestivi che insieme compongono l’immagine dell’Isola nell’ottica del suo autore; cioè una Sicilia colta, che nel 1860, al declino del Regno Borbonico e in un momento di grande transizione, riesce ad assorbire un’immobilità che somiglia a quella dell’eterno ciclo della natura. A 65 anni esatti dalla prima pubblicazione (1956) del celebre romanzo da parte dell’editore Feltrinelli (dopo diversi rifiuti di altre Case editrici) vale oggi la pena ripercorrere, romanzo alla mano, le terre del Gattopardo, addentrandosi nella Sicilia più interna. Partendo da Santa Margherita Belice, dove l’autore visse i giorni dell’infanzia e dell’adolescenza legata al ricordo felice dell’amatissima madre, Beatrice Tasca Filangeri di Cutò alla cui famiglia apparteneva il palazzo in cui Giuseppe ricalcò la casa di Donnafugata, dove sono ambientate memorabili scene del Gattopardo, fino a Palma di Montechiaro, feudo della famiglia e che con il suo palazzo ducale e il severo monastero del S.S. Rosario delle Benedettine, tutto ha ispirato non poco l’autore dell’opera letteraria. Santa Margherita Belice come Palma di Montechiaro rappresenta nel mondo tomasiano, la Sicilia del feudo che porta il segno austero dell’autorità paterna. A Palma di Montechiaro, ad esempio, lo scrittore fu colpito dall’imponenza della chiesa e del convento, nel romanzo trasfigurati nella visita del principe al monastero di Donnafugata. “In quel luogo tutto gli piaceva – si legge nel romanzo – cominciando dall’umidità del parlatoio rozzo”. Così narrava Tomasi di Lampedusa a proposito della visita del Principe di Salina al monastero dalle “abitudini secolari”, “soggetto ad una rigida regola di clausura e l’ingresso ne era sbarrato agli uomini tranne al Re …”.
Passeggiare per le vie di questi antichi centri situati nella provincia di Agrigento, il cui tracciato settecentesco è praticamente ancora intatto e largamente leggibile, offre l’opportunità di immergersi totalmente nelle magiche atmosfere della Sicilia di fine secolo con quei palazzi dai soffitti lignei nelle cui stanze sembrano ancora risuonare,durante le feste, le note del valzer reso celebre dal film di Luchino Visconti. Le magiche atmosfere delle pagine tomasiane conducono anche alla scoperta di quei dolci di mandorle che deliziavano il principe di Salina e che ancora oggi sono il prodotto più tipico della rinomata pasticceria locale. E uno dei luoghi più caratteristici per acquistare questi dolci è proprio il monastero del S.S. Rosario di Palma di Montechiaro. In questo convento si arriva dopo aver attraversato un piccolo cortile fiorito di cedri e aranci, dove è annessa la chiesa in cui sono conservate pregevoli pitture della fine del Seicento. Le monache di clausura si tramandano da secoli le antiche ricette dei dolci del Gattopardo che faranno rivivere nei sapori un pezzo di Sicilia che ormai non esiste più riportandoci a quel brano del sesto capitolo dell’opera: “… Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra luccicante di cristalli e argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Lì, immagini babà sauri come il manto dei cavalli, Montebianco nevosi di panna; beignets Dauphine che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli e “trionfi della gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle vergini”. Di queste Don Fabrizio se ne fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I “trionfi della gola” (la gola, peccato mortale!) le mammelle di Sant’Agata vendute dai monasteri e divorate dai festaioli! Mah!”.
LORENZO ROSSO