Liceo Classico e Musicale “Empedocle” Agrigento |
Gialli….di classe! |
Classe IV D |
A. S. 2023/2024 |
Indice
L’assassino del signor Pino 4
Antonino Sortino
L’incidente perfetto 7
Giulia Barba
The missing singer 11
Laura Stagno
Il Caso Spink 13
Giulia Arnone
Il quadro rubato 15
Giorgia Amato
L’apparenza inganna 17
Gaia Cutugno
Il delitto sulle scale 19
Giuseppe Milisenda
Un delitto in gioielleria 21
Marta Milano
The Dancer of Baker Street 23
Carlotta M. Di Rosa
Omicidio al porto 27
Carola M. Virone
Omicidio in fabbrica 29
Gloria Campione
Murder in George Street 31
Costanza Testa
Un insolito accadimento 33
Bianca Ciccarello
Un omicidio straziante 36
Cristiana Bonomo
Vendetta familiare 37
Francesco Cosenza
L’omicidio del signor Pattinson 40
Vania Danile
Omicidio dietro omicidio 42
Virginia Fiorentini
La partita 43
Claudia Venezia
L’assassino del signor Pino
Il Commissario si stava facendo una nuotata di mattina. C’era una bella arietta fresca in spiaggia: il mare era una tavola, i gabbiani volavano in alto e il cielo era blu ca pariva coloratu. Montalbano uscì dall’acqua e si curcà na sdraio; aveva intenzione di riposarsi quella mattina, ma ecco che suonò il telefono, che teneva appoggiato sul tavolino dell’ombrellone. Suspràprofondamente, cercando di non scoppiare di rabbia, poi rispose.
“Pronto!” disse con un’aria disturbata.
“Fazio sugnu”.
“Echecirumpiiscatuli d’ammatina?”
“Iscatuli? Hanno trovato il signor Pino ammazzato in casa sua, quello mbriacuni, che da giovane faceva il meccanico.”
“Si sa come l’hanno ammazzato?”
“Probabilmente una coltellata, ma dobbiamo aspettare l’autopsia; tu comunque devi venire qua.”
Montalbano suspràdi nuovo, si cambió e uscì.
Arrivato sul luogo, si accorse che c’erano un sacco di cristianiche, presi dalla curiosità per aver visto gli agenti salire, volevano capire cosa fosse successo.
“Spustativi!” disse Montalbano in modo sgarbato.
Quando salì, vide il morto: druziumurìassittatosulla poltrona. E c’era napicciottasulla trentina che piangeva come una disperata.
“Galluzzo, per favore, portatela via!”
“Ma è la figlia, Commissario.”
“Con garbo, ma portatela via.”
Montalbano era già così nervoso per il fatto di dovere andare a lavorare in quello che doveva essere un giorno di riposo che non poteva sopportare una figlia a lutto.
Si avvicinò a Pasquano.
“Quando è successo per te? E come?”
“Accuminciasti?” I due avevano chiaramente un buon rapporto.
“Probabilmente ieri sera, una coltellata, ma dobbiamo aspettare l’autopsia.”
“E quando si fa l’autopsia?”
“Dobbiamo aspettare il dottor Augello per togliere il morto.”
Sicuramente era andato a finire a casa di qualche picciotta, con il marito che si era andato a
rasparele corna da qualche altra parte. Dopo una mezz’oratas’arricampó.
“Eccomi, m’atascusari.”
“Alla buon’ora!”
Arrivato Augello, fu possibile togliere il morto.
Mentre si aspettava l’esito dell’autopsia, Montalbano si andò a fare una passeggiata al porto, e si portò anche Livia.
“C’è un profumo meraviglioso.”
“Ma che vai dicendo? A me sembra la puzza che si sente al ristorante quando hanno il pesce andato a male.”
“Per me è una puzza meravigliosa.”
Mentre chiacchieravano guardando l’orizzonte del mare blu, arrivò una telefonata.
“Mi hanno chiamato. Devo andare.”
“Fai sempre così: pensi sempre al lavoro e a me non ci pensi mai, anche oggi che doveva essere il tuo giorno libero.”
“Non cominciare a fare storie ora. Ti accompagno a casa.”
Dall’esito dell’autopsia venne fuori che il signor Pino era stato ammazzato la sera prima, con una coltellata. Purtroppo non avevano l’arma del delitto e quindi non si poteva fare il test del DNA; con l’autopsia si capì, però, che ad ammazzarlo era stato qualcuno spratico.
Adesso bisognava interrogare amici e parenti. Montalbano decise di iniziare con la figlia.
“Lui…Lui. L’ammazzaruamepatri.”
“Sì, questo lo so, io ti sto chiedendo se sai se qualcuno era sciarriatocon tuo padre.” Il Commissario stava perdendo la calma.
“Io…Lui.”
“Napazzaè.” si fece scappare Montalbano, ma quella, pazza com’era, nemmeno lo sentì e continuò a balbettare.
È normale che fosse diventata pazza, avendo vissuto un’infanzia così brutta, con un padre alcolizzato, che la picchiava quando finiva la birra.
Tutti gli altri parenti o erano morti o vivevano al Nord e pareva che nessuno in paese avesse intenzione di parlare di quella situazione. Decisero quindi di interrogare l’uomo con cui un tempo Pino faceva il meccanico, il signor Ciccio, che si era trasferito a Montelusa: magari avrebbe dato informazioni utili.
“Hanno ammazzato Pinuccio? Mi dispiace sentirlo; non lo vedo da tanti anni. C’è ancora quel tabacchino che era messo proprio davanti alla porta di casa sua?”
“Sì, c’è ancora.”
Il vecchio proprietario era andato in pensione e aveva passato il negozio in eredità al figlio Luigi.
“Spiaticise vi fa vedere la telecamera dell’esterno, così potete controllare chi è salito in casa di Pino la sera.”
“Geniale! Come abbiamo fatto a non pensarci?” pensò Montalbano. E così fecero.
Dalle telecamere videro salire proprio quella che sembrava la figlia del signor Pino con un coltello in mano e poi la videro uscire di corsa con la vesta sporca di sangue.
“Unci cridu.”
“Sicuramentesivendicópertuttil’abusicacificisopatri: da piccola la vedevi sempre piena di lividi.”
“Comunque ha ammazzato una persona, non può restare pedipedi.”
Quando gli agenti andarono in casa sua, la ragazza, che aveva capito di essere stata scoperta, si era messa a urlare come una pazza. Effettivamente era pazza: infatti, venne poi rinchiusa nel carcere psichiatrico di Messina,
Felice di aver completato anche stusirbizzu, Montalbano passò dal tabaccaio per ringraziarlo, e s’accattò macari un pacchetto di sigarette.
Antonino SortinoL’incidente perfetto
Quella mattina, Montalbano si era svegliato alle 5:30 e normalmente la cosa non gli avrebbe fatto né caldo né freddo, se solo non fosse stata una pessima giornata. Cadeva una pioggia fitta che sembrava non esserci, ma che non permetteva al Commissario di farsi la sua solita nuotata mattutina. E questo non faceva altro che peggiorare l’umore di Montalbano che, poco dopo, ricevette una chiamata dal Commissariato.
“Pronto? Dottore? È lei di pirsona pirsonalmente?”
“Sì, Catarè, non mi rompere i cabbasisi.”
“Che faceva, dormiva?”
“No.”
“Ah, meno male, Dottore.”
“Perché?”
“Così non sono stato io a svegliarla e oggi se la può prendere con qualcun altro.”
“Vabbè Catarè, vai al punto: che c’è?”
“Commissà, hanno trovato un morto.”
“Dove?”
“Contrada delle Viole. Ma Dottore, è inutile che vada: Pasquano ormai si è portato via il corpo e Fazio è già stato lì.”
“Va bene Catarè, però fammi un favore: la prossima volta che ammazzano qualcuno, invece di non chiamarmi, avvertimi subito. Grazie.” E attaccò.
Nel frattempo il temporale era peggiorato. Pioveva così tanto che Montalbano si bagnò dalla testa ai piedi per fare i tre passi che separavano la macchina dalla porta del Commissariato.
Appena arrivato, fu subito intercettato da Fazio con i suoi pizzini.
“Senti Fazio, prima che inizi a parlare, ti voglio avvertire: se ti lasci sopraffare dal tuo complesso di impiegato dell’anagrafe, dandomi informazioni che sai benissimo che non mi servono a nulla, io mi alzo e mi vado a bere un caffè.”
“Il morto si chiamava Calogero Infurna. Ha vissuto tutta la vita a Vigàta, ma nonostante questo aveva pochi amici. Anzi, uno solo direi: Antonio Piscopo.”
“Dai Fazio, non ti commuovere. Com’è morto?”
“L’hanno investito Commissà. Ma della macchina non c’è traccia.”
“Che ne pensa Pasquano?”
“L’incidente sarà avvenuto intorno alle 2:13, perché hanno trovato un orologio nel suo taschino fermo a quell’ora. L’uomo è sicuramente morto sul colpo, a causa della violenza dell’impatto. E poi era ubriaco, come se si fosse scolato tre bottiglie di vino da solo.”
“Voglio parlare con i genitori. Vivono a Vigàta?”
“Il padre è morto da un paio di anni. La madre, però, sta in paese. Via Persefone 6.”
“Ci vediamo dopo.”
Finalmente aveva smesso di piovere. Il cielo si era aperto e si sentiva quell’odore di terriccio bagnato. Aspettò qualche ora per uscire dal Commissariato.
La casa della vedova era piccola e isolata. Ad aprire la porta c’era una donna bassa, bionda, che piangeva, ma che, alla vista di Montalbano, provò a nascondere le lacrime.
“Buongiorno, signora Infurna, le mie più sentite condoglianze. Posso farle qualche domanda su Calogero?”
Quella lo fece accomodare dentro e gli offrì un caffè.
“Dottore, mio figlio era un angelo: ogni giorno si svegliava alle 5 per farmi le punture e poi andava a lavorare al cantiere fino a sera tardi.”
“Frequentava qualcuno in particolare?”
“No, aveva un solo amico. Piscopo, Antonio Piscopo. Si conoscevano dall’infanzia, ma negli ultimi tempi si vedevano di meno.”
“Per quello che ne sa, aveva qualche vizio? Fumo, alcol?”
“Alcol? Commissario, non mi faccia ridere. Mio figlio tre anni fa si è operato al fegato e da quel momento gli bastavano anche solo tre dita di vino per sentirsi male e rischiare di nuovo di morire. Calogero non beveva mai, nemmeno sotto le feste.”
“Ma signora, abbiamo trovato notevoli tracce di alcol nel sangue di suo figlio.”
“Impossibile. Vi sarete sbagliati.”
Montalbano decise di ritornare in Commissariato per parlare con Mimì Augello.
“Salvo, sei stato fortunato, stavo per uscire.”
“Mimì, chi ha fatto i primi rilievi sulla strada dove è morto Infurna?”
“Io, perché?”
“Voglio sapere solo una cosa: hai visto bottiglie nelle vicinanze del corpo?”
“No, niente bottiglie.”
“Mimì, sicuramente la macchina che l’ha investito avrà il parabrezza ammaccato. Dovremmo farci un giro per i carrozzieri di Vigàta per vedere se qualcuno ha portato una macchina da mettere a posto.”
“Salvo, come al solito, la mia mente brillante ha preceduto la tua: già fatto, ma non ho trovato nulla.”
“Senti, mi spieghi come mai proprio tu, che solitamente in Commissariato ci stai poco, hai preso tanto a cuore questa faccenda?”
“Perché quelli che investono qualcuno e lo lasciano lì a morire mi piacciono poco. E tu?”
“Io? Perché non penso che sia stato un incidente, ma un delitto. Segui il mio ragionamento: la madre di Infurna mi ha detto che il figlio non beveva mai, neppure durante le feste. E io, per qualche motivo, ci credo. Secondo me, l’assassino, mentre Calogero tornava dal cantiere, l’ha affiancato con la macchina e obbligato a salire, sotto la minaccia di un’arma, probabilmente. L’ha costretto a bere così tanto che Infurna si è sentito male e l’assassino l’ha lasciato andare. Barcollando, Infurna avrà di tornare a casa, ma la stessa macchina lo avrà preso alla sprovvista e investito da dietro. Un incidente perfetto, plausibilissimo, soprattutto perché la vittima era ubriaca.”
“Vabbè Salvo, hai fantasticato abbastanza, cerca un modo per trovare l’assassino.”
“Devo parlare con Piscopo. Sai dove abita?”
“Sì, via Nettuno, l’ultima casa. Però a quest’ora sarà al ristorante di Enzo per pranzare. È già tardi, ma se ti sbrighi dovresti riuscire a incontrarlo.”
Montalbano andò subito via e, da Enzo, vide Piscopo seduto da solo.
“Buonasera, le dispiace rispondere a qualche domanda su Calogero Infurna?”
“Va bene Dottore, però si sbrighi: devo tornare in officina il prima possibile.”
“Che lavoro fa?”
“Sistemo motociclette. Lo spazio che affitto è piccolo, quindi molti pezzi li sposto nel garage di casa.”
“Che rapporto aveva con Infurna?”
“Intimo, ma avevamo ricominciato a vederci da poco. Negli ultimi tre anni ho abitato a Lucca per stare vicino a mio padre. Della vita di Calogero degli ultimi tempi so poco e niente.”
“Dove si trovava la notte dell’incidente?”
“A casa. E, prima che me lo chieda, non c’è nessuno che possa provarlo: ero da solo.”
“Va bene così, la lascio alla sua officina. Buona giornata.”
Appena uscito dal ristorante, prese il telefono e digitò un numero.
“Signora Infurna, sono Montalbano. Scusi se oggi la disturbo di nuovo, ma dovevo chiederle una cosa: quand’è che suo figlio si è operato al fegato?”
“Tre anni fa. Gliel’avevo già detto stamattina.”
“Ha ragione, volevo essere sicuro. Arrivederci.”
Dopo la telefonata, Montalbano decise di andare a casa di Piscopo.
Erano quasi le cinque, quindi aveva ancora un po’ di tempo per guardarsi intorno prima che Antonio tornasse dall’officina. Richiedere i documenti necessari al tribunale di Montelusa per un’ispezione alla casa senza prove non sarebbe stato facile e avrebbe occupato molto del suo prezioso tempo, quindi decise di salire direttamente sul muretto e scavalcare. Del resto, aveva solo bisogno di dare un’occhiata al garage.
E, come al solito, il Commissario aveva ragione: dentro c’era una Fiat Tipo bianca con il parabrezza ammaccato. Che ci faceva con una macchina se aggiustava solo motociclette?
Il giorno dopo, a ora di pranzo, tornò al ristorante di Enzo. Piscopo non era ancora lì, per questo scelse un tavolo e ordinò.
Appena arrivò, Montalbano lo invitò a sedersi con lui. Mentre aspettavano l’arrivo del piatto di pasta con le vongole, Piscopo buttò giù quattro bicchieri d’acqua. Finalmente, Montalbano parlò: “Senti, so tutto. Vedi di raccontarmi i dettagli adesso, oppure non so se di pomeriggio sarai in officina o per strada, diretto al carcere di Montelusa.”
Il poveretto, credendo di salvarsi, decise finalmente di dire qualcosa.
“Commissà, Infurna mi ricattava. Quando abitavo a Lucca, mi costringeva a mandargli il mio stipendio, perché mi aveva minacciato di raccontare di un furto che avevamo commesso anni prima al Supermercato Lauricella. I soldi del cantiere non gli bastavano più per sostenere lui e la madre vedova. Ma Dottore, come l’ha capito?”
“Infurna non beveva, perché aveva subito un’operazione. Una morte da ubriaco non era credibile. L’assassino quindi, doveva essere qualcuno che sapeva poco della vita di Calogero degli ultimi tempi e chi meglio di te, che non lo frequenti da più di tre anni? Del ricatto, però, non sapevo nulla. Mi hai reso il lavoro molto più facile.”
Subito dopo arrivò Fazio a prendere Piscopo per portarlo a Montelusa.
Montalbano uscì dal ristorante e andò verso Marinella. Finalmente, nonostante la pioggia di quella mattina, si respirava aria d’estate.
Prese le valigie e salì sul treno diretto a Catania, doveva prendere l’aereo per Genova. Livia lo aspettava.
Giulia Barba
The missing singer
Sono sempre stato considerato un detective in gamba, uno dei migliori nella mia città, eppure questa volta il mio istinto da segugio è stato messo a dura prova da uno strano caso. Ho sempre avuto un fiuto formidabile, una vista d’aquila, il passo felpato di una pantera, tanto che in città il mio nome, Sherlock Holmes, è conosciuto da tutti. E’ impossibile sfuggirmi: osservo, penso, deduco. Mi nascondo, mi mimetizzo. Mi sciolgo nel buio, mi dileguo nell’oscurità e arrivo all’improvviso. E adesso sono qui, in questa stanza, dove mi fermo ad ascoltare, nel silenzio, il respiro di questa donna, lento e regolare. Fuori è buio da un pezzo. Una pioggia ghiacciata vela i vetri. Nell’oscurità, con il piede, urto una sedia e la donna si sveglia, si stropiccia gli occhi, si tira su, si mette seduta in mezzo al letto. Mi guarda, lancia un urlo e il suo gatto scappa lontano. Inizia una lunga discussione. Accenna a dire qualcosa. Io subito la fermo e mi presento, dal momento che non mi aveva riconosciuto. A questo punto la donna si alza e con una voce spenta comincia a raccontare un sogno particolare. Si trovava a Little Venice, un piccolo quartiere residenziale nei pressi di Londra, dove abitava la madre, che coltivava la passione per il canto e l’opera lirica. Nel sogno, però, la madre si trovava in una stanza buia, legata e imbavagliata. Turbata dal sogno, la donna si reca, quindi, nello stesso quartiere del sogno per chiedere informazioni su sua madre, ma nessuno, nemmeno i vicini, sembrava conoscerla. A questo punto io, dopo avere ascoltato le sue parole, cerco di capire il motivo per cui ero stato chiamato. La osservo e le chiedo come mai avesse avuto bisogno di un detective. La signora, con calma infinita, si infila una lunga vestaglia blu e da un cassetto prende un sasso avvolto in un pezzo di carta. Nel frattempo, i miei occhi notano la grande vetrata della finestra in frantumi. Il sasso era grigio e levigato e sul pezzo di carta compariva una scritta “DA RIEMPIRE… DI MEMORIA OPPURE D’ACQUA (una lettera che va e viene può aiutarti a capire)”. Il giorno dopo penso a risolvere l’enigma: mi rivolgo allora al mio collaboratore, Watson che, come al solito, ripete sempre le stesse domande; ma appena io, infastidito, glielo faccio notare, lui, in modo risoluto, risponde: “Holmes, spesso ho vuoti di memoria, vere e proprie lacune!”. Quella parola finale rimbomba nel mio cervello e capisco che è la soluzione dell’enigma. A questo punto, decido di precipitarmi a Little Venice, dove vi è una nebbia fitta, per cercare “una lacuna nella laguna”. Durante il viaggio in treno continuo a pensare alla soluzione del rompicapo e, una volta arrivato, mi viene in mente che per andare in hotel potevo solo prendere un battello, perché in questo quartiere, formato da tanti canali, non ci sono le carrozze. Ecco la lacuna che cercavo! Mi aggiro tra i vari canali della piccola cittadina e trovo un curioso manifesto al centro del quale campeggia un minuscolo disegno: una carrozza! Mi soffermo a leggere un indirizzo che può tornarmi utile. Mi precipito subito in questo luogo e trovo una Galleria d’arte. Comincio a guardare tutti i quadri, ma vengo colpito da una tela piccola, orizzontale, sulla quale è dipinta una teiera con colori accesi. Studio il quadro per tre ore in assoluto silenzio insieme al mio aiutante e finalmente capisco di essere vicino alla conclusione. Mi precipito subito fuori dalla Galleria, dove c’è un negozio di antiche teiere e set per il tè. Comincio a scrutare tutto ciò che è presente e trovo l’unica teiera somigliante a quella del quadro. Una volta aperta, vi trovo dentro un piccolo biglietto, che reca scritto l’indirizzo di una via che si trova nel cuore di Londra, Westminster Street 11. Chiedo di seguirmi a Watson, che nel frattempo non sta capendo nulla delle indagini, ma fa finta di stare seguendo. Arrivato nella via indicata, trovo una pensione, nascosta tra grandi negozi. Entro come una furia, scendo le scale quattro per volta e, dopo una decina di metri, arrivo in una piccola stanza dove trovo la donna seduta, legata e imbavagliata. La libero e mi racconta che era stata legata in modo tale da non poter cantare, dato che il suo canto faceva appassire i fiori e marcire il latte, mandava tutti in agitazione e, di conseguenza, le attività in prossimità della sua abitazione stavano fallendo. Così la donna era stata rinchiusa da tre uomini e una sua amica, essendo venuta a conoscenza di tutto, ma avendo paura di parlare, ha scritto degli indovinelli per mettere la polizia sulle sue tracce. Io e Watson ritorniamo a Londra insieme alla cantante e raccontiamo alla figlia tutta la storia. Le due signore continuano a ringraziarci e la madre ci promette che non avrebbe più cantato, se non sottovoce.
Laura Stagno
Il Caso Spink
Era una mattina nuvolosa a Londra e dintorni; come sempre, la nebbia ricopriva tutto, palazzi, strade e vie.
L’odore di umido e rugiada rinfrescava l’animo londinese che è in me.
Ero nel mio salotto, solo, a fissare via Privet Drive 32 dalla mia finestra; ero stranamente in pensiero, a riportarmi alla realtà fu l’inconfondibile odore di tè nero bollente, affiancato a un telegramma, ritirato stamani, posto sul tavolino vicino la mia poltrona.
E’ difficile ricevere un telegramma al mattino presto, così, anche se leggermente titubante e sospettoso, impugnai la lettera scritta dal mio caro amico Watson. Si affrettava a comunicarmi un fatto accaduto nei pressi di Clistone Square, piazza solitamente e costantemente piena di gente.
“Un cadavere giacente sull’uscio del portone di casa sua” scriveva lapidario il dottore “e tantissima gente incredula della disgrazia avvenuta: il corpo è del signor Spink.”
Sebbene volessi concedermi del tempo per me, lasciai cadere il telegramma per terra e afferrai subito la pipa e la lente. Mi ritrovai sul luogo del delitto nel giro di pochi minuti; appena misi piede nella piazza, Watson mi corse incontro:
“Vedo che ha ricevuto il telegramma…”
“Dove si trova il corpo?”
“Esattamente sull’uscio del portone…a quanto pare era solo…perciò non abbiamo testimoni.”
Mi feci spazio fra la folla che circondava il malcapitato, mi accucciai e lo guardai fisso in volto: occhi spalancati, pelle cadaverica, odore di rum e Jack Daniel’s. Allungai lo sguardo verso la folla e, con tono garbato, invitai tutti ad allontanarsi; a quel punto vi eravamo solo io, Watson e il corpo.
“Cosa sa dire sul povero signor Spink?” mi chiese il dottore.
“Beh sicuramente è successo tutto intorno le 5:45 e, anche se il corpo giace qui, non è questo il luogo dell’uccisione; a giudicare, invece, dalla ferita, non è stato un colpo di arma da fuoco. Ritengo, però, impossibile che lo abbiano ucciso solo per divertimento” risposi.
“Le chiedo di perdonare la mia impertinenza e indecenza, ma non riesco proprio a comprendere come lei, Holmes, da una semplice occhiata sia riuscito a dedurre tutto questo, mi aveva già parlato del confine tra osservazione e deduzione…ma non riesco ugualmente a seguire il suo ragionamento.”
“E’ semplicissimo Watson, talmente sciocco che mi sorprende la sua incredulità e, mi permetta di dirlo, ignoranza. Capisco, però, che non è semplice seguire i miei ragionamenti. Si dà il caso che la pelle del cadavere sia ormai sui toni del grigio, con accenni violacei, il che mi fa credere che il delitto sia avvenuto tutto circa due ore fa…”
“Fin qua riesco a seguirla.”
“A giudicare dall’odore di fumo e di Jack Daniel’s, posso dire che il nostro morto non conduceva una vita molto felice, ma alquanto turbolenta; a rendere la mia supposizione ancor più valida è il fatto che l’anello che porta al mignolo era uno dei pezzi più costosi di una delle gioiellerie più pregiate a Londra: si dà il caso che sia stato anche il protagonista di un articolo di circa una settimana fa che ne dichiarava la scomparsa.”
“Bene…credo di esserci fin qui.”
“In aggiunta posso dedurre che il nostro uomo sia stato ucciso per qualche debito che voleva saldare con i soldi ricavati dalla vendita all’asta dell’anello. Riguardo al luogo del delitto, è altamente improbabile che il signor Spink stato ucciso qui, ma qualche metro più avanti, con un colpo secco di pugnale nel costato, tra la prima e la seconda costola.”
“Da cosa evince che l’arma non fosse da fuoco?”
“Elementare! Dal fatto che non vi è alcun proiettile e che, logicamente, se fosse stato ucciso con una pistola non sarebbe riuscito a trascinarsi fin qui, ma sarebbe morto sul posto in pochi secondi.”
“Ritengo che il suo ragionamento sia complicato…” rispose Watson, che poi, tuttavia, accennò un sorriso e disse: ”ma, naturalmente, per niente infondato.”
“Beh, mio caro Watson, c’è ancora un dubbio che mi tormenta…” dissi riportando la pipa alla bocca “ovvero, chi potrebbe essere stato il colpevole? Magari un collega, un malavitoso, un pazzo, chiunque…”
Smisi di parlare e cercai di ispezionare più approfonditamente l’uscio All’improvviso rinvenni la lama argentea del pugnale; stupefatto la colsi e, con molta precisione, avvicinai la lente e notai due iniziali: “R. R”.
Impugnando saldamente la mia pipa per riflettere meglio, ebbi come un’illuminazione e pensai di aver trovato la soluzione.
“Ma certo! E’ chiaro!”
“Di che parla Holmes?”
“Le iniziali sulla lama sono la chiave dell’omicidio: queste sono le iniziali di Red Riot, uno dei capi più rispettati tra le bande di malavitosi londinesi; deve averlo ucciso per qualche conto non saldato o per un torto subito…credo proprio di sapere dove trovarlo.”
“Non avrà sul serio l’intenzione di andare in qualche quartiere malfamato a cercarlo, rischiando di essere ferito o ucciso!”
“Le mie congratulazioni Watson: per la prima volta è riuscito a usare la deduzione e a capire cosa ho intenzione di fare!”
Giulia Arnone
Il quadro rubato
A Londra, l’intelligentissimo investigatore Sherlock Holmes si trovava a risolvere un caso complesso, accompagnato, come sempre, dal suo fido assistente Watson, un uomo poco intelligente e intuitivo.
Si trattava di un quadro che era stato rubato nel corso di una mostra al museo; era un quadro molto particolare: raffigurava un cervo in una foresta, contornato da altri animali che non si distinguevano bene; era un quadro di valore che era stato messo in mostra dietro una teca fatta di un vetro particolarmente resistente.
Il primo che rivolse la parola a Holmes fu il proprietario del museo, James Hackey; disse che, quando lui era arrivato scena del crimine, il quadro era già stato rubato e che il vetro a protezione del quadro era stato rotto da una furcia, l’unico oggetto in grado di rompere quel vetro; sottolineò anche il fatto che, a saperlo, erano solo gli organizzatori della mostra.
Così Holmes si rimboccò le maniche e, insieme a Watson, iniziò a interrogare i testimoni: dissero che non sapevano molto, solo che la mostra era iniziata alle otto di sera, che il quadro era stato rubato intorno alle nove di sera e che il ladro era interamente ricoperto da una tuta nera; un ultimo particolare era la sua voce cupa ma insicura, come se avesse avuto paura.
Holmes iniziò a riflettere e ipotizzò che il ladro non fosse un esperto, che forse era stato qualcun altro ad averlo costretto, il vero mandante del furto… ma della sua idea non proferì parola, era ancora una semplice ipotesi.
Watson gli ricordò che potevano provare a ottenere qualche informazione parlando con gli organizzatori della mostra, che erano gli unici a sapere della furcia; così li radunò e fece loro delle domande sull’accaduto.
Tutti sembravano sicuri di quello che stavano dicendo, ma uno di loro richiamò particolarmente l’attenzione di Holmes: aveva una voce cupa e insicura, proprio come quella descritta dai testimoni; così l’investigatore continuò ad incalzarlo con le sue domande, ma quello sembrava rispondere con sincerità, nonostante la sua voce insicura: riferì che effettivamente si trovava al museo alle otto, ma non aveva ricevuto un incarico ben preciso, quindi se ne era stato tutto il tempo seduto su una poltrona ad ammirare la bellezza dei quadri e delle opere esposti. Holmes sapeva che non stava mentendo, poiché molte persone lo avevano visto e i suoi colleghi avevano confermato le sue parole.
Holmes era molto confuso, per non parlare di Watson; l’investigatore aveva fatto le sue deduzioni, ma nessuna di queste lo convinceva del tutto, finché non si accorse di aver fin troppo sottovalutato il proprietario del museo, che aveva sicuramente mezzi e opportunità per compiere il misfatto e, quella sera, non era stato visto da nessuno: il colpevole era sempre stato sotto il suo naso!
Pensandoci, Holmes, iniziò a comprendere che James Hackey aveva rubato il quadro e lo aveva lasciato in un magazzino di sua proprietà che si trovava vicino al museo; poi si era tolto la tuta nera e, con i suoi consueti abiti, era tornato alla mostra, fingendosi preoccupato e impaurito. Inoltre, possedeva una voce stridula, come quella descritta.
Era fatta! Bastava cercarlo e incastrarlo; pertanto, Holmes e Watson si recarono a casa sua con il pretesto di invitarlo a prendere un tè, ma, entrando, notarono che James Hackey era stato così sprovveduto da appendere il quadro nel suo salotto! Così fu facile farlo confessare e consegnarlo alle forze dell’ordine. Il movente: semplice brama di possesso…quel quadro doveva essere solo suo!
Un altro criminale era stato smascherato, un altro caso era stato risolto e, ancora una volta Holmes e Watson erano tornati a casa soddisfatti.
Giorgia Amato
L’apparenza inganna
A Holmes arrivò la notizia di un nuovo omicidio proprio mentre stava discutendo con Watson riguardo all’ultimo caso risolto. Subito si recarono sulla scena del crimine, la vittima era una ragazza giovanissima e ben vestita, si chiamava Caroline Hernings. Sulla schiena erano presenti numerosi segni di arma da taglio, che rovinavano il suo bel vestito. Holmes notò un pezzo di catenella dorata, da collana o da orologio, saldamene stretta nella mano della giovane, ma anche che la vittima non indossava le scarpe. Holmes e Watson si indirizzarono verso la casa degli Hernings, una piccola famiglia ricca e conosciuta da generazioni. I genitori, alla notizia della morte della figlia, scoppiarono in lacrime e, poiché erano incapaci di parlare dal dolore, Holmes passò al fratello minore che, anche se distrutto emotivamente, aiutò il detective dandogli alcune nuove informazioni: la ragazza si sarebbe dovuta sposare a breve e ultimamente le cose tra lei e il suo fidanzato non andavano molto bene. Holmes e Watson, quindi, si recarono a casa del nuovo sospettato, Henry Sorensmore, un giovane tranquillo e educato, a primo impatto. Mentre attraversavano il salotto, Holmes notò in lontananza delle scarpe femminili. Nel corso dell’intero interrogatorio, il sospettato si mostrò tranquillo e pacato, come se non fosse morto nessuno. Henry spiegò che lui e Caroline litigavano spesso perché lui stava troppo fuori casa e non passava più del tempo con lei. Holmes e Watson, quindi, si recarono alla centrale di polizia, proprio mentre arrivavano i risultati dell’autopsia: la vittima, in realtà, non era morta dissanguata, ma strangolata; le ferite sulla schiena erano solo superficiali e sulla bocca della giovane era stata rinvenuta la polvere di un potente sonnifero. Con queste nuove informazioni, dopo una piccola riflessione, Holmes si recò di nuovo a casa del fidanzato, Henry, per una perquisizione più approfondita e, quando arrivò, lo trovò alle prese con il camino: stava bruciando qualcosa che non era carta o legno. Holmes si mise a cercare in giro per il salotto e, dopo svariati minuti di ricerca, finalmente trovò quello che stava cercando: era una chiave dorata con un pezzo di catenina ancora attaccata. Doveva essere questo l’oggetto rimasto attaccato alla mano di Caroline. Cercando in altre stanze della casa, Holmes trovò nella cucina delle tazzine usate, in una era ancora presente della polverina non dissolta. Doveva per forza essere il sedativo; ritornato nel salotto spense il camino e lì ritrovò le scarpe viste in precedenza. Trovate tutte queste prove incriminanti, Holmes avvisò la polizia e fece arrestare Henry. Quando, finalmente, il criminale confessò, spiegò che Caroline aveva preso la chiave, che era molto importante per lui, quindi litigavano da giorni perché lei non gliela voleva ridare e, quando finalmente l’aveva convinta a restituirgliela, lui era troppo arrabbiato e aveva ormai deciso di ucciderla: per prima cosa, le aveva messo del sedativo nella tazza del tè e lei, assonnata, era andata a coricarsi a letto; quando si era tolta le scarpe, Henry aveva provato a strangolarla, ma lei si era liberata ed era scappata verso la città. Lui, mentre la inseguiva, le sferrava da dietro dei colpi con un semplice coltello da cucina e, in un vicoletto, era finalmente riuscito a strangolarla e a strapparle la chiave dalle mani. Henry fu condannato alla pena capitale, ma rimaneva il mistero relativo alla stanza che doveva essere aperta da quella chiave così importante; pertanto, Watson e Holmes si recarono di nuovo a casa del colpevole e, quando aprirono la porta della stanza segreta, trovarono una stanza piena di carte compromettenti…
Gaia Cutugno
Il delitto sulle scale
Era un giorno come gli altri e Montalbano, dopo essersi fatto la solita nuotata, ricevette una chiamata da parte di un certo Domenico Bosco, il quale riferiva che, appena tornato a casa, aveva trovato un uomo disteso davanti alla porta di casa sua, precisamente sopra il portaombrelli; inizialmente aveva notato solo una piccola macchia di sangue, ma, non appena si era avvicinato, aveva trovato l’uomo con un ombrello conficcato nello stomaco e il portaombrelli pieno di sangue. Sopra il cadavere aveva visto un biglietto sul quale c’era scritto: “A prossima vota tocca a tia”.
Dopo questa chiamata, Montalbano andò sul luogo del delitto con Fazio e Mimì e, dopo aver ispezionato la zona, chiamò quelli della Scientifica. Quando arrivarono, dopo aver preso tutti i dati, portarono il corpo nel reparto di medicina legale dell’ospedale; nel frattempo, Montalbano e Fazio facevano delle domande al signor Domenico per capire se qualcuno potesse avercela con lui, mentre Mimì continuava a ispezionare il luogo per cercare di capire cosa fosse successo. Domenico affermò di non avere problemi con nessuno in paese, tranne che con un pescatore di nome Vittorio Labate.
“E chi succidì cu chistu?” chiese Montalbano.
“Nenti, na vota ivu pi accattari u pisci ni iddru e mi sciarriavu picchì m’avia datu chiddru fitusu, dopu stu fattu si spargì la vuci e ora nuddru chiu va ni iddru”.
In Commissariato, intanto, chiamò il medico legale per dire che la vittima era stata spinta dalle scale; si chiamava Lucio Di Vincenzo, aveva quarantacinque anni e faceva il grossista. In paese girava la voce che anche lui avesse avuto da poco un forte litigio proprio con il pescatore Vittorio Labate. Solo una coincidenza?
Per scoprirlo, Montalbano e Fazio andarono a trovare il pescatore e, quando gli chiesero dove stesse andando, lui rispose in modo sgarbato di non rompere i cabbasisi perché doveva andare a prendere le reti. Poi, quando gli comunicarono di essere della polizia, si fermò.
Per prima cosa, Montalbano e Fazio ispezionarono la nave, trovarono cinque panetti di droga e scoprirono che il signor Labate gestiva, per conto della criminalità organizzata, una fetta importante del traffico di stupefacenti a Montelusa e provincia; probabilmente, il Di Vincenzo doveva essere uno dei suoi clienti, che magari aveva con lui qualche conto in sospeso.
Da lì cominciò il vero e proprio interrogatorio: Labate giurava di non avere niente a che vedere con la morte del Di Vincenzo, ma, mentre lo stavano ammanettando per portarlo in Centrale, arrivò un’auto con tre persone che cominciarono a sparare; Montalbano e Fazio, portando con loro il pescatore, si misero dietro una barca per sfuggire agli spari, poi passarono al contrattacco salendo sulla volante e cominciando a inseguire la macchina dalla quale erano giunti i colpi di arma da fuoco. Durante l’inseguimento, chiamarono i rinforzi e riuscirono a prendere i malviventi.
Tornati in Commissariato, i due ricevettero un’altra telefonata da parte del medico legale, il quale riferì che sul cadavere erano state trovate le impronte di un certo Carlo Martello, uno degli scagnozzi di Labate, che si trovava, tra l’altro, a bordo dell’auto che aveva tentato l’azione intimidatoria ai loro danni; a questo punto, doveva essere stato anche l’esecutore materiale del delitto.
Messo alle strette, infatti, il signor Labate confessò di avergli commissionato l’omicidio del signor Di Vincenzo e che il prossimo sulla lista sarebbe stato Domenico Bosco…
Giuseppe Milisenda
Un delitto in gioielleria
Sherlock Holmes ed io ci trovavamo in giro per le strade di Londra per distrarre un po’ la nostra mente dall’ultimo caso risolto, che si era rivelato molto complesso e stancante.
In giornata, però, arrivò un telegramma a Holmes da parte dell’agente Rumbo, che comunicava l’uccisione della proprietaria di una gioielleria, avvenuta alle 10:42 di mattina, vicino il Tower Bridge, Flowers Street, 411.
Ci rechiamo il prima possibile sulla scena del crimine. Lì Holmes inizia a interrogare le persone che si trovavano nelle zone circostanti al momento del delitto, poi anche i familiari della defunta.
La testimonianza più interessante, però, è stata quella rilasciata dalla panettiera del panificio accanto alla gioielleria: “Ho sentito uno sparo e sono uscita dalla mia bottega per capire da dove arrivasse, così ho visto fuggire dalla gioielleria una signora dai capelli biondo cenere che indossava un jeans, una giacca blu e delle scarpette bianche. La cosa che ha attirato più di tutte la mia attenzione, però, è stata la splendida collana di perle, con un ciondolo di brillanti pendente, che portava al collo.”
“Mi fornisca qualche informazione in più sulla signora”aggiunse Holmes.
“Avrà avuto una quarantina di anni, era alta e anche abbastanza magra; questo è quanto ricordo”rispose la panettiera.
“La ringrazio molto del suo aiuto, signora. Ritornerò da lei nel caso in cui dovesse essere necessario”concluse Holmes.
Dopo gli interrogatori, Sherlock Holmes, sfruttando il suo talento deduttivo, riuscì a intuire qualcosa.
“I familiari di Mary, la povera gioielliera uccisa, erano tutti a lavoro nell’orario in cui è avvenuto il crimine, da quanto confermano anche i loro colleghi. Solamente di una di loro non si ha avuto più traccia, la cognata Jade. I suoi stessi alunni, dal momento che è una professoressa, ci hanno riferito che lei oggi è stata assente tutta la giornata anche a scuola”disse Holmes.
“Magari ha avuto un imprevisto o si è sentita male, per questo motivo si sarà assentata”risposi, ma Sherlock Holmes non prestò molta attenzione alle mie parole.
“Inoltre la collana di perle che indossava la signora descritta dalla panettiera coincide con la descrizione della collana di perle che il marito di Jade, nonché fratello della defunta, ci ha riferito di aver regalato alla moglie per il loro ventesimo anniversario di matrimonio; difatti, la possedeva soltanto lei ed era unica nel suo genere, proprio perché era stata realizzata da un famoso artigiano. Per giunta, anche la descrizione della moglie coincide con quella riportata dagli altri testimoni.”
“Mi vuole dire che, basandosi soltanto su queste prove, pensa di aver trovato il colpevole?”mi permisi di insinuare.
“Mio caro Watson, se si ricorda, in molti hanno definito il rapporto tra le due cognate, molto freddo e distaccato: Jade odiava Mary perché aveva sposato l’uomo che lei da sempre amava, John Richard, che, però l’aveva sempre rifiutata. Per tale motivo, Jade era stata costretta a sposarsi con il fratello di Mary, Rubben. Negli anni ha, però, maturato un profondo odio nei confronti di Mary, al punto tale da arrivare a confessare al marito e ad altre persone a lei care, da come ci è stato riferito nel corso degli interrogatori, di volersi sbarazzare della cognata, ma nessuno purtroppo l’aveva mai presa sul serio. Inoltre è da un po’ che il marito non riceve sue notizie, probabilmente si sarà nascosta da qualche parte per non farsi trovare”replicò Holmes.
”Mi scuso, mio caro Holmes, per aver messo in dubbio le sue deduzioni. Avrei dovuto avere più fede nelle sue facoltà deduttive”conclusi.
Marta Milano
The Dancer of Baker Street
Il signor Holmes aveva sempre amato giocare col fuoco, ma non con quel genere di fuoco che si vede ai falò oppure negli incendi, bensì con quelle scintille che bruciano permanentemente, che non lasciano scampo. Così la mattina del 16 maggio 1882, dopo aver comprato il solito Daily Mail ed essere rincasato, decise di sbattermelo sulla scrivania, proprio mentre mi stavo dedicando a una prescrizione per una fidata cliente.
“Meraviglioso, Watson, meraviglioso!” disse il detective.
Lessi il titolo in prima pagina.
“Il Ballerino di Baker Street colpisce nella notte: trovati morti tre uomini in piazza Queen Victoria” purtroppo stavo iniziando a capire, ma quel briciolo di buon senso che mi era rimasto mi stava impedendo di esaltarmi.
“Non è assolutamente strabiliante? Pane per i miei denti, Watson!”
“Holmes, con il dovuto rispetto, non trovo nulla di strabiliante in un serial killer che giri per Londra e si faccia chiamare ‘Il Ballerino di Baker Street’” dissi, già esasperato.
“A volte mi chiedo come facciate a essere così stolto, Watson. Non vi rendete conto che noi ci troviamo a Baker Street, precisamente al 221B?”
“Non vi seguo, Holmes”
“Il 221B è molto vicino al 219A, che si trova proprio davanti al mercato, che è il posto in cui sono state rinvenute tutte e tre le vittime del nostro amato ballerino. Considerando che gli abitanti delle palazzine che vanno dal 213 al 219 si recano a lavorare alle 07.00, e conseguentemente, si svegliano alle 06.00, escludendo la mattina fino alle ore 08.30, poiché il mercato apre a quell’ora e nessun uomo o donna passerebbe mai da lì mentre questo è in allestimento, togliendo…” lo interruppi.
“Non capisco dove volete andare a parare, Holmes. Mi sembra tutto così puramente casuale” dissi. Aveva senso?
“L’impazienza non ha mai portato a nulla di buono, Watson. Fatemi concludere!” tipica risposta da Sherlock Holmes.
“Dicevo, togliendo tutto il pomeriggio fino alle 20.30, poiché è quello l’orario in cui chiude il mercato, ed escludendo la sera fino all’1.30 del mattino, poiché lì davanti si trova un pub dove amano andare i giovani, non ci resta che dedurre che il nostro ballerino ha colpito tra l’1.35 e le 05.50 del mattino” disse, con quell’aria di disperata di approvazione cui ormai ero abituato.
“Va bene, il ragionamento non fa una piega, ma come fate a essere certo che i condomini vadano a lavorare tutti alle 07.00?” mi permisi di chiedere.
“È elementare, Watson” ma certo, ovvio che lo era.
“Nessun posto di lavoro è raggiungibile a piedi da lì, il che implica un obbligatorio uso di mezzi; il fatto che la mattina dalle 7.10 alle 08.30 non ci sia nessuno che passi ci porta a dedurre che i condomini escano prima, al contrario di quando rincasano alle 19.30, orario in cui si crea uno dei traffici più fastidiosi di tutta Baker Street” concluse, guardandomi con gli occhi di chi sapeva di avere ragione.
“Va bene, mi avete convinto. Cosa intendete fare adesso?” chiesi.
“Andare sul luogo del delitto prima che Lestrade decida di ordinare alla polizia di mandare una pattuglia in piazza” disse, con lo stesso entusiasmo di un bambino che aveva appena trovato due sterline per terra.
Lungo il tragitto per raggiungere la piazza del mercato non feci altro che pensare al modo di operare del detective Holmes. Era un uomo assolutamente geniale, facilmente considerabile superiore al più scaltro agente di polizia, ma quando si ostinava a risolvere un caso era irremovibile. Lo osservavo camminare a passo perfettamente ritmato mentre stringeva con tre dita la pipa nella mano destra, con le sue scarpe meticolosamente lustrate dello stesso colore della bombetta spolverata con attenzione la sera prima. Una voce acuta e fastidiosa interruppe il mio pensiero, era il commissario Lestrade che, come immaginato, aveva già mandato una pattuglia di polizia, decisamente non intenta a far partecipare il detective Holmes alle indagini.
“Holmes!” disse il Commissario, facendosi largo tra gli agenti.
“Erano circa tre settimane che non ci vedevamo, speravo in una quarta” disse, pungente e sarcastico come sempre, lasciandosi avvolgere il viso da un ghigno.
“Peccato… ed io che sentivo così tanto la vostra mancanza. Toglietevi di mezzo” rispose Holmes.
“Non potete entrare, stiamo lavorando!” disse Lestrade, cercando di bloccarci.
“Esatto, proprio come me, ora toglietevi dai piedi!” disse il detective, facendo definitivamente spostare il Commissario.
Ci avvicinammo alle sagome tracciate dei tre cadaveri messi in fila, quello centrale posto a braccia aperte.
“Holmes, perché si fa chiamare ballerino?” chiesi; avevamo sottovalutato questo aspetto.
“Perché è un ballerino” rispose secco.
“È un ballerino?”
“Pensateci, Watson, tra una settimana ci sarebbe dovuto essere il debutto de Il Lago dei Cigni, ma sono stati assassinati il produttore dello spettacolo, il coreografo e il protagonista. Ditemi che senso avrebbe uccidere il protagonista di uno spettacolo.”
“Holmes, sono un medico, posso dirvi la causa del decesso, non il movente di un omicidio.”
“Il vostro problema è che non vi dedicate all’osservazione, Watson, il che è alquanto bizzarro dato che, come avete detto, siete un medico.”
Sherlock Holmes era un uomo che aveva sempre dedicato tutte le sue giornate a una perenne stimolazione delle capacità intellettive, usufruendo di tutto ciò che aveva a disposizione, dai cruciverba a sostanze eticamente biasimabili, perciò non mi stupiva il fatto che disapprovasse la mia, solo apparente, carente capacità di osservazione.
“Dunque, Watson, l’unica persona che ucciderebbe mai un protagonista è un altro protagonista che, sicuramente, era stato sostituito. Calcolando le probabilità, il ragazzo messo a braccia aperte al centro sarebbe dovuto essere il nuovo personaggio principale” concluse, sistemandosi la bombetta sulla testa.
I pezzi del puzzle cominciavano a collegarsi tra loro, questa era la parte migliore del lavorare con Sherlock Holmes.
“Watson, come sono morti?” mi chiese.
“Il ballerino ha spezzato loro il collo.”
Holmes era in silenzio, non lo era mai.
“Holmes?” chiesi.
“Watson, chi è in possesso di una pistola?” mi chiese il detective.
“I poliziotti, i tenenti, i militari, credo.”
“Perfetto!” esclamò, d’un tratto gli si illuminarono gli occhi.
“Per cosa usereste una pistola, se aveste degli ostaggi?” mi chiese. Non capivo dove volesse arrivare con quelle domande.
“Per spaventarli o colpirli, penso” che cosa voleva concludere? Dio, che confusione che faceva venire.
“Corretto! Seguite il mio ragionamento, Watson!”
“Vi seguo” non lo seguivo per niente.
“Vedete quel segno di pneumatici? È dovuto a una autovettura, una delle prime in circolazione. Apparteneva al nostro ballerino. L’ho osservata con cura e mi è stato possibile dedurre che egli deve avere certamente dei problemi al collo che gli hanno causato una difficoltà a inserire la chiave nella fessura per fare partire il motore, il che spiega tutti i graffi in quel punto, nonostante sia una macchina nuova.
I tre bavagli ritrovati dalla polizia sono stati usati sui tre ostaggi, che sono stati trovati morti col collo spezzato. Per quanto riguarda la pistola, ha incise le iniziali ‘D.C.’”
“Amico mio, che vuol dire tutto questo?” chiesi io
“Vuol dire, mio caro Watson, che il nostro ballerino non è un assassino molto scaltro, poiché ha deciso di fuggire lasciandosi indietro tutte le prove: macchina, bavagli e pistola. Se fosse stato solo un po’ più astuto, si sarebbe ricordato che solo i militari hanno le iniziali incise sulla pistola e avrebbe di certo pensato a riprendersela. E qual è l’ex tenente che ha fatto scalpore per essersi dimesso ed essere entrato nel mondo del teatro? Forza Watson!”
“Dominic Cumberbatch!” urlai io.
“Sì, Watson, sì!” disse, correndo ad abbracciarmi.
“Questo cosa ci fa capire, Holmes, amico mio?” chiesi io.
“Che, mio caro amico, il ballerino si è infortunato al collo, probabilmente durante le prove, ed è stato sostituito; di conseguenza, ha perso per sempre la sua occasione nel mondo dello spettacolo e, preso da un momento di esasperazione, ha deciso di uccidere le tre persone che, secondo lui, avevano fatto crollare tutte le sue aspettative di carriera. Così si è lasciato sopraffare dalla collera e ha ucciso i tre uomini nello stesso modo in cui si era infortunato” concluse il detective.
“Non fa una piega, è sempre tutto così ovvio per voi?”
“È elementare, Watson, in più io non tiro mai a indovinare, lo trovo un inutile indebolimento delle capacità deduttive.”
“Perché il sostituto era messo a braccia aperte?” mi permisi di chiedere, dato che non avevamo approfondito questo aspetto.
“Questa è la nota chiusura da repertorio del balletto Il Lago dei Cigni, è elementare.”
Mi lasciai scappare un sorriso, quell’uomo era sempre un passo avanti agli altri. “Come verrà preso l’assassino?” domandai.
“Di questo se ne occuperà Lestrade. Considerando che ho fatto il suo lavoro in due ore, mentre lui l’avrebbe fatto in due settimane, mi sembra il minimo.” Poi concluse: “Mi sa che mercoledì prossimo non andrò a teatro, peccato”.
Carlotta M. Di Rosa
Omicidio al porto
Una notte, sentimmo a bussare alla nostra porta, più è più volte. Era freddo e cupo come sempre nel londinese. Ci alzammo per rispondere, era il capo della polizia: “Detective Holmes! Watson! Scusate per l’orario, ma sapete come funziona qui. C’è un nuovo caso, vi chiediamo di recarvi al porto il prima possibile.”
Dopo circa una ventina di minuti arrivammo. Era pieno di gente, chi guardava incuriosito e chi, infastidito, aspettava di salire sulla propria nave, in ritardo a causa dell’omicidio. Holmes odiava avere persone a curiosare nel corso delle sue indagini, perciò feci andare via tutti prima che lui scendesse dalla carrozza.
C’era solo un uomo che si opponeva alla mia richiesta, diceva di essere un amico d’infanzia della vittima e di averlo incontrato poco prima che venisse ucciso. Poteva essere utile, perciò non lo feci allontanare più di tanto. Un agente ci illustrò la faccenda: “Questa notte qui c’è stato un omicidio. La vittima si chiama George Goodman, 39 anni. Era un bravo uomo, aveva una gioielleria a Willmore Street. Non aveva mai avuto problemi prima d’ora, nessuno si aspettava che sarebbe morto con una pallottola in testa.”
Holmes si mise a osservare. “Osservazione e deduzione”, come diceva sempre lui.
“Chi è quell’uomo?” mi chiese.
“James Evans, un vecchio amico della vittima, dice di essere stato con lui fino a poco prima che gli sparassero.”
“Voglio fargli delle domande”, disse sospettoso.
“Signor Evans, posso farle delle domande?” chiese Holmes.
Evans si irrigidì.
“Lei è venuto qui con la vittima?” continuò.
“No. Avevo incontrato il mio vecchio amico una mezzoretta prima della disgrazia.” Rispose.
“E ha visto qualcosa?”.
“No. Niente di niente. Il tempo di salutarlo e andai via, ero di fretta.” In quel momento cominciai a capire che quello era il primo sospettato per Holmes.
“E cosa aveva di così importante da fare per non restare a scambiare quattro chiacchiere con un vecchio amico d’infanzia?” chiese ancora il detective.
“Cos’è, un interrogatorio?” rispose Evans innervosito. “Lo vidi da lontano e passai a salutarlo, tutto qui” continuò.
“E come mai passava di qui? Questa è una zona frequentata solo da viaggiatori.” ribatté il mio amico.
Il sospettato si bloccò, era agitato. Si contraddiceva da solo. Il detective fece un’altra domanda: “Che cos’è quella macchia rossastra sulla sua manica?”
“Sarà una macchia di vino, sono passato a bere un bicchiere prima di venire qui.” rispose.
Holmes si faceva sempre più insidioso e, a un certo punto, i suoi occhi si illuminarono e mi fece cenno di allontanarmi con lui. “È lui l’assassino. L’ho trovato! È stato molto più facile di quanto potessi immaginare!”.
“Ma come, ne è già sicuro? Come ha fatto?Non può esserne certo!” risposi incredulo.
“Guardi, Watson, è talmente elementare che non penso ci sia bisogno di rifletterci più di tanto, anche un bambino ci sarebbe arrivato senza problemi. Come prima osservazione, la gente va al porto solamente per due motivi: per partire o per aspettare qualcuno di ritorno. Evans non aveva con sé nessun tipo di valigia o borsone; tantomeno carta d’imbarco, soldi o qualsiasi cosa potesse servirgli per partire. Poteva essere lì per aspettare qualcuno, ma oggi è domenica e non ci sono navi di ritorno, solo di partenza. Perciò si può facilmente dedurre che doveva essere lì per qualche altro motivo. Poi, la macchia rossastra sulla sua camicia: rosso sangue, non rosso vino! Si poteva poi facilmente notare che aveva al polso un orologio molto costoso, sicuramente non alla sua portata. Poteva essere l’orologio di un nobile, o magari, del proprietario di una gioielleria…È così semplice! Deve aver seguito fino a qui il signor Goodman, deve averlo ucciso in modo da eliminare qualche vecchio debito e deve avergli sfilato anche l’orologio dal polso. E così semplice Watson, come ha fatto a non capirlo?”
Il suo tono di voce saccente mi infastidiva molto, ma non potevo dargli torto. Anche questa volta aveva ragione!
Carola M. Virone
Omicidio in fabbrica
Sherlock Holmes era uno degli investigatori più importanti di tutta Europa. Riusciva a risolvere i casi a occhi chiusi e cercava anche di spiegare anche al suo braccio destro, il dottor John Watson, come condurre un’indagine. Uno dei casi più famosi della sua carriera è quello che riguarda l’omicidio di una giovane ragazza avvenuto all’interno della fabbrica di fiammiferi più celebre di Londra. Un giorno, più precisamente nel mese di novembre, si precipitò nell’ufficio di Sherlock Holmes una donna che si occupava delle pulizie all’interno della fabbrica e, quando l’investigatore la vide arrivare con gli occhi rossi e pieni di lacrime, si preoccupò, la fece accomodare e, con calma, si fece spiegare tutto. La donna cominciò parlare: lei si era precipitata da Holmes perché, durante le sue pulizie pomeridiane, aprendo la porta del camerino dove di solito riponeva gli attrezzi da lavoro, aveva visto il cadavere di una ragazza giovanissima e, impressionata, era scappata in lacrime. Terminato il racconto della donna, Holmes avvisò immediatamente Watson, che era appena tornato a casa per aiutare la futura moglie nei preparativi del matrimonio, e i due si precipitarono sul luogo del delitto. Quando arrivarono, la fabbrica era chiusa; da soli cominciarono a esaminare il cadavere e poi, con la sua lente d’ingrandimento, Holmes cercò qualche indizio rilevante per tutto l’edificio. Mentre i due osservavano attentamente il cadavere, capirono subito come era avvenuto l’omicidio. Holmes, infatti, disse: “Quattro coltellate nel petto! Quale brutta persona avrebbe potuto fare una cosa del genere a una ragazza così giovane?”
Watson rispose: “Non saprei, ma se il killer non voleva essere scoperto, non è stata poi una grande idea quella di nascondere il cadavere nel camerino di una fabbrica.”
Il giorno dopo, tornarono in fabbrica per cercare dei testimoni e due persone in particolare diedero loro delle informazioni molto utili: la mamma e la sorella della giovane morta, il cui nome, si venne a sapere, era Mary Twist. Le due donne raccontarono che, lavorando in quel luogo, la ragazza aveva subito molestie da parte del suo capo, ma non voleva ribellarsi perché quell’uomo era troppo potente, essendo il proprietario di una delle più importanti fabbriche di Londra. Tuttavia, non appena la madre e la sorella erano venute a conoscenza di quanto stava avvenendo, erano riuscite a convincere la povera Mary a denunciare tutto.
Così la ragazza cominciò a evitare il suo datore di lavoro, il quale fece finta di accettare questo distacco, ma, secondo quelle donne, quella quiete era solo apparenza ed era proprio lui il responsabile dell’omicidio. Dopo averle ascoltate a lungo, i due investigatori rifletterono e si ricordarono che il giorno prima non avevano potuto controllare l’ufficio del capo, perché era chiuso con una chiave custodita gelosamente. Sherlock Holmes e John Watson cercarono nuovamente di entrare nell’ufficio, ma il capo si oppose con forza; riuscirono, tuttavia, a spostare l’uomo dall’ingresso ed entrarono finalmente nella stanza. Dopo svariate ricerche, trovarono un cassetto nascosto nella libreria; all’interno c’era un coltello con del sangue fresco e la lama aveva la stessa forma di quella che aveva trafitto il petto della ragazza. Quella era la prova inconfutabile del fatto che il capo della fabbrica di fiammiferi era il killer. Durante il suo interrogatorio, l’uomo continuava a negare, ma c’erano troppi indizi che portavano a lui. Finalmente confessò di essere il responsabile, la fabbrica fu chiusa e lui venne mandato in prigione. Tutte le persone che lavoravano lì vennero liberate da quella ingombrante presenza.
Anche questa volta giustizia fu fatta grazie ai due brillanti investigatori: Sherlock Holmes e John Watson.
Gloria Campione
Murder in George Street
Sono le prime ore del mattino di una uggiosa giornata londinese allietata da una fitta e leggera pioggia che non disturba coloro che assaporano la città, quando il più grande investigatore di tutti i tempi, Sherlock Holmes, viene svegliato da insistenti e rumorosi tocchi alla porta: “Investigatore Holmes, siamo stati convocati questa mattina alle ore cinque e tre quarti in via George Street, 74, contattati da un signore che vuole denunciare un omicidio. La invitiamo a seguirci.”
”Grandioso, agente, grandioso.” Indossati i suoi tipici abiti a scacchi, in men che non si dica il grande detective si affretta a salire sulla carrozza della polizia e a giungere sul luogo del delitto. Poco dopo, arriva anche John Watson, il suo più fedele aiutante, probabilmente convocato anche lui per mezzo di un telegramma. L’indagine può iniziare. Vittima: Brian Evans, uomo di mezza età, avvocato, scapolo. Gli ufficiali lo hanno trovato impiccato a una trave del suo soffitto a cassettoni. I suoi vicini lo ritenevano un uomo socievole, tranquillo, appassionato di cricket, che coltivava rapporti amichevoli con tutti i suoi colleghi.
“Perché uccidersi, allora?”
“Mi segua, Watson, mi segua” disse il detective.
Entrando nell’abitazione dell’uomo, inizialmente nulla insospettisce gli investigatori, fin quando non giungono al piano superiore, in particolare nella sua camera da letto, dove Sherlock Holmes nota un orso di peluche.
”Credo di essere sulla retta via!” disse il detective.
“Cosa deduce da questo datato e lercio pupazzo?” replicò Watson.
”Chiaramente, il signor Evans non era cosi solo come pensiamo. Doveva essere il padre di un bambino o di una bambina, a giudicare dal grado di logorio del pupazzo. A meno che l’avvocato non abbia avuto una crisi di mezza età con il desiderio di tornare ai tempi remoti nei quali godeva dell’affetto dei genitori…” disse ironicamente l’investigatore. “E, a meno che il signor Evans non abbia ricevuto suo figlio dalla cicogna, aveva sicuramente anche una relazione da cui probabilmente il povero uomo non ha tratto niente di buono. O almeno è ciò che deduco da questa…” Mentre pronunciava queste parole, Holmes teneva in mano la lettera di un certo Henry Williams, che invitava la vittima a incontrarlo nel solito pub e a portare dei soldi; sparse per tutto l’appartamento vi erano, inoltre, molte altre lettere da parte dello stesso mittente e con il medesimo contenuto.
“Arrivi al punto, Holmes, non le sto dietro in questo modo ” disse Watson.
“Probabilmente il nostro Evans non deve essersi ripreso dalla separazione e avrà affogato i suoi dispiaceri nell’alcol; poi, in stato di ebbrezza, avrà commesso qualche reato per il quale veniva ricattato da questo Williams.”
In effetti, la deduzione di Holmes si mostrò esatta poiché pochi minuti dopo gli venne consegnata, dall’agente Robbie, una copia del Daily Mail di tre mesi prima, che riportava in prima pagina testuali parole: “Murdered Killer “, “Killer assassinato”.
La pagina del giornale riportava la notizia dell’assassinio, da parte dell’avvocato, di tre pedoni. Leggendo i nomi delle vittime, il detective sobbalzò: “Uno dei tre proveniva dalla famiglia mafiosa Corleone, ormai conosciuta in tutto il Regno Unito, che probabilmente si è resa colpevole della morte di Evans” disse Holmes.
I due amici tornarono, quindi, sul luogo del delitto e analizzarono meglio il cadavere, che aveva sui polsi dei segni piuttosto marcati: “Escludo il fatto che si tratti di un suicidio. Evans è stato legato con violenza e, successivamente, impiccato.”
Durante l’osservazione del corpo, Holmes si soffermò sull’odore della fune utilizzata per l’impiccagione. Un profumo fresco, che gli ricordava gli agrumeti esplorati in un suo breve viaggio nel Sud Italia. Qualche minuto dopo, giunse sul luogo del delitto un vicino di casa: “Volevo informarvi dello strano passaggio di una carrozza presso questa via e, in particolare, dirimpetto all’abitazione del signor Evans. Si trattava sicuramente di un uomo perché, andando via di fretta, ha perso questo.” Mostrò un orologio. Marca italiana, importante, in vera pelle. Era chiaramente da uomo, con incise le iniziali “V. C.”
”Non ho alcun dubbio. Le mie deduzioni sono state confermate dalla sua testimonianza” esclamò Holmes, soddisfatto.
“Non giunga a conclusioni affrettate, Holmes, dovremmo verificare mediante le impronte digitali” cercò di frenarlo Watson.
”E così faremo, mio aiutante, ma l’assassino, macchiatosi di omicidio volontario premeditato, è senza dubbio Vito Corleone.”
Costanza Testa
Un insolito accadimento
Come ogni mattina, il commissario Montalbano era uscito di casa per fare un bagno. Gli piaceva uscire presto quando si arrisbigliava e sciaurare l’odore del mare. Solitamente lo rinvigoriva, ma quella mattina l’odore pungente delle alghe marce lo infastidì come a fargli presagire quello che stava per finirgli sotto il naso.
Arrivato al solito scoglio, gli pigliò uno spavento a vedere d’un tratto il corpo di una picciotta galleggiare, nascosto dalla schiuma delle onde. La taliò con gli occhi sgriddrati e cominciò a nuotare per tornare sulla riva e chiamare Fazio.
“Fazio, dove sei?”
“Dottore, sono in Commissariato. Mi dica, è successo qualcosa?”
“Fazio arricampati subito e chiama qualcuno, ho ritrovato il corpo di una picciotta sugli scogli davanti casa mia. Fa impressione pure a mia!”
Il Commissario riattaccò il telefono e si affrettò a vestirsi. Il suono delle sirene iniziò a spargersi per tutto il quartiere. Fazio e Augello accorsero sul posto, mentre Montalbano usciva di casa abbottonandosi una camicia.
“Dottore dov’è il corpo?”
“Seguitemi, è lì dietro.”
“Dottore, ha detto che si è impressionato. Che voleva dire? Chi successì?”
“Ci cavaru gli occhi Mimì, l’hanno lasciata qua sola come un animale.”
Seguito da tutta la Squadra Mobile, il Commissario si avvicinò al mare. Ammucciato c’era il corpo della giovane ragazza con gli occhi cavati, le braccia legate e i polsi segnati da lividi. Vanni Arquà, capo della Scientifica, cominciò a scattare foto e fece recuperare il cadavere. Montalbano lasciò proseguire le indagini e, molto provato, rientrò in casa. Dopo pochi minuti di silenzio, passati a pensare, sentì squillare il telefono.
“Camurria!”
“Augello, cosa c’è?”
“Dottore, la picciotta si chiama Tania Sakowsky, 23 anni, russa.”
“Russa?”
“Sì. Dottore, era russa. È morta per dissanguamento.”
Montalbano uscì nuovamente di casa e si avvicinò alla scena del crimine, dove la Scientifica e la Squadra Mobile avevano cominciato le indagini. Cominciò a guardarsi attorno e, mentre era perso tra i suoi pensieri, vide sulla sabbia, dietro gli scogli, una scheda telefonica.
Chiamò subito Fazio per farla analizzare. Si scoprì che apparteneva proprio alla vittima. Montalbano, allora, si diresse in Via Marconi 12, il suo indirizzo, accompagnato da Fazio.
Arrivato lì, suonò alla portinaia, la quale lo fece salire al secondo piano. Cominciò a taliarsi intorno e vide, sopra la porta del salotto, ben nascosta, una videocamera.
“Fazio, dove sei?”
“Dottore, sempre qua.”
“Arricampati subito!”
“Va bene, sto arrivando.”
Montalbano aspettava con ansia l’arrivo del suo assistente e, mentre si guardava, intorno sentì il rumore di un’auto.
“Dottore!”
“Fazio, fai controllare questa videocamera.”
Il tempo passava e il Commissario ormai era andato a pranzo nel solito ristorante in cui faceva la sua pausa. Quel giorno non aveva tanta fame ed era abbastanza pensieroso. Stava consumando il suo pasto in silenzio e con l’aria triste.
Improvvisamente, alzò lo sguardo e vide che il suo cellulare si era illuminato e aveva cominciato a squillare.
“Fazio, cosa c’è adesso?”
“Dottore, nel video c’è qualcosa che non mi convince. Si vede che c’è un uomo che si sciarria con la vittima, però è strana la situazione.”
“Fazio che vuoi dire?”
“Secondo me è stato modificato. Questo voglio dire!”
“Fazio, ma che vai dicendo? Fallo controllare a qualcuno!”
Chiuse il telefono e ricominciò a mangiare.
Dopo poco tempo, il telefono ricominciò a squillare, era Augello.
“Camurria!”
“Commissario, ho fatto passare tanticchia di tempo prima di chiamarla. Fazio aveva ragione! Il marito, Erik Sakwosky, è venuto fin qua dalla Russia per ammazzarla.”
“Mimì, hai già chiamato il dottor Pasquano?”
“Sì dottore, ha finito di esaminare il corpo.”
“Sto arrivando.”
Montalbano si affrettò a raggiungere il Commissariato per vedere le riprese e scoprire il movente dell’omicidio. Nel video, si vedevano i due litigare, la donna fuggire e, verso la fine, l’uomo picchiarla e ridurla in pessime condizioni.
Questa parte del filmato era stata manomessa dal computer dell’uomo, ma era stata ritrovata da un tecnico specializzato.
“Qua parlano di una fuga.”
“Il marito sarà venuto a sapere che la moglie era fuggita in Italia e sarà venuto qui a cercarla e riportarla a casa. Poi la lite deve essere degenerata…”
A un certo punto, la porta dell’ufficio si spalanca: “Dottore! Dottore! Una chiamata!”
“Chi è, Catarella?”
“Galluzzo, dottore!”
“Pronto?”
“Commissario, Erik Sakwosky è stato visto da una pattuglia giù al porto.”
“Manda subito qualcuno!”
“Dobbiamo andare. Amunì!”
In silenzio gli altri due lo seguirono.
Il Commissario, seguito da Augello e Fazio, si recò al porto di Vigàta e, arrivati a destinazione, lui e i suoi uomini videro altri due poliziotti portare via l’omicida. Sospirarono, tranquilli.
Erano sollevati per aver risolto un altro omicidio e per aver incarcerato un uomo che aveva tolto la vita a una ragazza innocente.
Bianca Ciccarello
Un omicidio straziante
Molti anni fa, in Sicilia, viveva una famiglia composta da Nunzia, la madre, una donna molto umile, Michele, il padre, che si dedicava solo al lavoro, e i due figli, Salvatore e Angela, due bambini molto educati, che erano fortemente devoti ai loro genitori. Era la classica famiglia siciliana di un tempo: il marito andava a lavorare e la moglie si occupava della casa e dei bambini. Nunzia, però, desiderava tanto fare la sarta, lavoro che le piaceva sin da quando era bambina, ma puntualmente Michele le diceva che l’unico suo dovere era occuparsi delle faccende di casa e della gestione dei bambini. Questo discorso, in famiglia, fu oggetto di innumerevoli litigi, che però non furono mai la soluzione dei loro problemi.
Un giorno, Salvatore e Angela, dopo essere tornati da scuola, avevano trovato Nunzia per terra cosparsa da una grande quantità di sangue. Così i bambini, in preda al panico, erano andati a chiamare il loro papà, che aveva avvisato immediatamente la polizia. Una volta arrivati, scesero dalle macchine due poliziotti, Catarella e Galluzzo; c’era anche la Scientifica, che subito andò a ispezionare la casa per vedere se ci fosse qualche arma con la quale la donna poteva essere stata uccisa, ma dopo ore di controlli non trovarono nulla.
Chiamarono così il commissario Montalbano che, come sempre, stava pranzando al suo ristorante di fiducia, “da Enzo”. Non appena venne a conoscenza dell’accaduto, si recò sul posto con il dottor Pasquano, che fece portare il cadavere nel reparto di medicina legale per l’autopsia. Nel frattempo, Montalbano andò a casa di Michele, che si mostrò addolorato; ma il Commissario, conoscendo le condizioni e i continui litigi della famiglia, non si lasciò convincere e chiese di controllare ancora una volta la casa. Andò nella camera da letto dei due coniugi e rinvenne la valigetta da lavoro di Michele. In un primo momento, aprendola, non trovò nulla, ma poi si accorse del portafogli sporco di sangue: era proprio del marito. Dentro c’era un coltellino, che il Commissario portò alla Scientifica per controllare se ci fossero eventuali impronte. Nel frattempo, l’autopsia era terminata: la donna era stata uccisa con dieci coltellate.
Il Commissario era certo che l’assassino di Nunzia fosse proprio il marito. Purtroppo, a darne la conferma furono le impronte sul coltellino, che combaciavano perfettamente con quelle di Michele.
Così l’uomo venne arrestato e i bambini vennero dati in adozione.
La morte di Nunzia fu un dolore immenso per tutti.
Cristiana Bonomo
Vendetta familiare
Era una tranquillissima mattina di aprile. Sherlock Holmes si trovava sul balcone di casa sua a prendere un po’ di sole, vista la gradevole giornata primaverile. Già pensava a quello che avrebbe fatto quel giorno con aria fiacca, poiché lo attendeva una fitta lista di impegni. Per prima cosa doveva passare dal giardiniere: voleva abbellire il cortile della sua residenza estiva, dal momento che si avvicinava l’estate e, a breve, si sarebbe trasferito in campagna per sfuggire all’aria malsana di Londra. Poi sarebbe dovuto andare in ufficio per riordinare un paio di scartoffie riguardanti casi passati. Avrebbe dovuto fare, inoltre, una tappa dal sarto che avrebbe preso delle misure per ultimare un cappotto commissionatogli qualche tempo prima. Infine, sarebbe passato a prendere Watson di ritorno da un viaggio in Belgio. Sospirava pensando a tutto questo e borbottava qualche parola di lamento, finché improvvisamente sentì il campanello suonare con insistenza. Aprendo vide il signor Albert, il portiere, che, molto agitato, gli consegnò un telegramma, dicendo che era particolarmente urgente. Sherlock Holmes ringraziò, prese il misterioso foglio e, mentre lo apriva, la sua espressione facciale mutò, passando da quella di un uomo stanco e rassegnato a quella di un bambino pronto ad aprire i tanto attesi regali. Lesse di un omicidio avvenuto qualche ora addietro presso una contea limitrofa. Si sorprese ancora di più quando scoprì che il mal capitato non era altri che il signor Peterson, un uomo divenuto improvvisamente ricco per aver ereditato l’ingente patrimonio del fratello morto in circostanze ancora da chiarire. Il suo corpo era stato ritrovato presso la libreria della sua sontuosa villa. Holmes, non pensandoci due volte, si recò presso la dimora della famiglia Peterson.
Si respirava un’aria molto tesa. Le inservienti e i maggiordomi stavano in silenzio nei corridoi della villa. Sherlock Holmes fu guidato verso la scena del crimine non solo da una domestica, probabilmente la governante, poiché a ogni suo passo si sentiva il rumore metallico di molteplici chiavi, ma anche da un incessante pianto che sembrava provenire da una donna disperata. Il detective, recatosi sulla scena, vide che, sul pavimento, coperto da un sontuoso tappeto persiano sporco di sangue, vi era il cadavere esanime del signor Peterson. La signora afflitta sembrava troppo giovane per essere la moglie; aveva la faccia di una donna sulla ventina. Sherlock Holmes capì che la situazione non era proprio delle migliori, quindi, con un po’ di riguardo, chiese ad alta voce chi avesse trovato il corpo. La governante fece un passo avanti dicendo con voce spezzata: “Questa mattina, come di consueto, mi sono svegliata alle 5:30, mi sono preparata e, alle 6:00, sono andata in cucina per preparare la colazione al signore. Mi sono recata presso i suoi alloggi, ma non vi era anima viva. Questo fatto non mi allarmò più di tanto, perché era già successo che il signor Peterson si svegliasse molto presto per recarsi in biblioteca a leggere qualche libro. Quindi, mi recai lì con il vassoio su cui erano posati un piatto dei suoi biscotti alla cannella e la sua tazza di tè. Entrando vidi questa scena e, facendo cadere la portata, levai un grido che ha mise in allerta l’intera villa. Sono accorsi tutti e, dopo un primo momento di panico generale, l’abbiamo mandata a chiamare tramite il telegramma.”
Il racconto sembrava onesto e la signora sincera, quindi Sherlock Holmes aveva una pista da cui iniziare. Sentì altri membri della servitù per capire come le persone vedessero il signor Peterson. In generale, era un uomo abbastanza stimato e rispettato da tutti; quindi, non si capiva chi avesse potuto commettere un atto così efferato. Girò un po’ la casa che era tappezzata di arazzi e quadri su ogni parete. Entrò nella camera della vittima; il suo letto sembrava disfatto con calma, come se si fosse alzato tranquillamente e si fosse recato in biblioteca passeggiando.
Il corridoio era in ordine; non c’erano busti, piante, o arredi messi fuori posto da un qualche inseguimento, quindi l’uomo doveva aver trovato la morte in biblioteca. A giudicare dalle ferite riportate, la vittima era stata colpita da dietro con un oggetto contundente, probabilmente nel corso di un agguato. L’assassino poteva facilmente essersi nascosto dietro una libreria, attendendo l’arrivo dello sfortunato signor Peterson. Non c’erano segni di effrazione in casa, quindi il carnefice doveva già trovarsi all’interno della villa e conoscere bene la routine dell’uomo. Sherlock Holmes pensò a qualche cameriere, ma ben presto si accorse che gli alloggi della servitù si trovavano in un complesso di abitazioni separato dal resto della casa e che, quindi, gli inservienti non avrebbero potuto raggiungere l’edificio principale se la governante non avesse aperto loro la porta; ma ella giurava di non aver aperto ad anima viva.
Ormai era quasi sera. Sherlock Holmes aveva già interrogato quasi tutto il personale, ma sembrava non esserci nessun colpevole. Tutti erano stati chiamati, anche per dire mezza parola, tutti avevano un alibi e la maggior parte di questi erano anche abbastanza solidi; tranne uno, quello della ragazza che all’inizio della mattinata Holmes aveva trovato sulla scena del crimine a stracciarsi le vesti e piangere in maniera accorata. In effetti, era l’unica che il nostro detective non aveva ancora avuto il piacere di ascoltare. All’inizio, per non essere indelicato, non le aveva chiesto nulla, ma adesso era venuto il momento di sapere chi fosse. La governante, interrogata al riguardo, rispose con voce spezzata che si trattava di Samanta, la nipote del signor Peterson, che, dopo la bizzarra morte del padre per un incidente in carrozza, era stata ospitata dallo zio, ma, da qualche tempo, aveva iniziato a comportarsi in modo diverso dal solito. “Come non biasimarla!”, pensò Sherlock Holmes; dopo un lutto così grave di solito le persone tendono a comportarsi in maniera anomala per riuscire ad affrontare il trauma della perdita, ma la governante proseguì a raccontare che, negli ultimi mesi, la situazione stava migliorando e che la ragazza stava ritornando a vivere la sua vita, nonostante il dolore. Finché un giorno, passeggiando per il giardino della villa, vide suo zio sotto il gazebo in compagnia di altri uomini cui stava dando dei soldi e ciò la turbò molto; si avvicinò, quindi, in modo silenzioso per origliare e, a quel punto, sentì parlare dell’ottima riuscita di un incidente avvenuto di recente. In lacrime, andò a riferire tutto alla governante, che ormai era diventata un’amica fidata. Ella non credeva alle sue parole e rimase sbigottita; poi, per tranquillizzarla, le disse che probabilmente quegli uomini stavano parlando di un altro incidente avvenuto qualche settimana prima, in cui un passante era stato investito proprio nei pressi della villa. Ciò non rassicurò per niente la ragazza, che invece sembrava determinata a capire la verità. La governante cercò in tutti i modi di distoglierla dal suo obiettivo, ma questo non bastò. Holmes, sentendo quel racconto, domandò alla donna il motivo per il quale queste informazioni non gli fossero state recapitate prima e lei, sempre con voce spezzata, rispose che temeva che Samanta potesse essere coinvolta nelle indagini a seguito delle sue affermazioni; ma, in fondo, sapeva che, purtroppo, l’assassina era proprio lei.
Sherlock Holmes non esitò un attimo a cercare la colpevole, che, nel frattempo, era nelle sue stanze. Prima di entrare bussò alla porta e, dopo aver ottenuto il permesso di entrare, la vide. Era molto nervosa, piangeva istericamente, ma, ora che i capelli non le coprivano più il volto, il suo sguardo era diverso: non era più l’espressione agonizzante di una ragazza che soffriva, ma quella di una donna in preda all’ira. Holmes le disse in modo schietto che ormai aveva compreso tutto e che non c’era più molto da fare, perché la polizia a breve sarebbe arrivata a prenderla. Così Samanta, alzandosi in piedi e gridando, accusò il signor Peterson dell’omicidio di suo padre per vile denaro. Era arrabbiata per quello che aveva scoperto riguardo a quello zio a lei tanto caro che, dopo la morte del padre, era diventato l’unico familiare che le fosse rimasto; ma soprattutto era delusa da se stessa. Quasi si odiava, poiché si era resa conto che, compiendo anche lei un omicidio, si era comportata come la persona che odiava di più al mondo.
Francesco Cosenza
L’omicidio del signor Pattinson
Io e il mio collega, Holmes, stavamo studiando delle carte nel suo ufficio, quando, inaspettatamente, entrò nella stanza la segretaria per consegnare un telegramma.
Non capii subito di cosa si trattasse, vedevo soltanto Holmes prendere appunti senza dire una parola. Dopo un po’ alzò lo sguardo e mi disse: “Abbiamo un nuovo caso!”
“Di cosa si tratta?” chiesi; lui mi rispose: “Una donna ha segnalato alla polizia l’omicidio del marito, il signor Pattinson. Dobbiamo recarci al più presto sul luogo del delitto.”
Poche ore dopo, io e Holmes eravamo nella dimora dei signori Pattinson; il mio collega, però, prima di interrogare la donna, decise di fare un giro per la casa.
Dopo un po’ mi disse: “I due erano sposati da sedici anni e hanno avuto due figlie; entrambe studiano in un college di Londra molto lontano da qui, per questo non vivono più con i genitori.”
Era assurdo come Holmes fosse riuscito a scoprire così tante cose nel giro di pochi minuti.
La signora Pattinson ci invitò a sederci per bere del tè, lì cominciò l’interrogatorio.
Il mio collega cominciò a fare delle domande: “So che suo marito lavorava per un’azienda molto prestigiosa; sa per caso se a qualcuno non faceva comodo la sua presenza?”
Io, intanto, tra me e me pensavo: “Come faceva a sapere dove lavorava? Come lo aveva scoperto?”
La signora, con fare addolorato, rispose: “Mio marito era un uomo d’oro, sempre gentile e educato con tutti, nessuno poteva odiarlo.” A stento riusciva a parlare, aveva gli occhi pieni di lacrime.
Holmes chiese: “In che condizioni ha trovato suo marito quando ha scoperto l’omicidio?” La donna guardò per un po’ il vuoto, poi rispose: “Era per terra, pieno di sangue, con un coltello conficcato nel torace.”
Io e il mio collega, una volta finito l’interrogatorio, andammo a vedere il corpo del signor Pattinson; Holmes guardò per un po’ il coltello, poi mi riferì di aver capito cosa fosse successo.
Io non so come quest’uomo, in pochi minuti, riesca a capire e collegare così tanti avvenimenti; so solo che, in confronto a lui, mi sento una nullità.
Al nostro ritorno a casa, gli chiesi delle spiegazioni; lui cominciò a parlare: “Partiamo da due dati di fatto: il signor Pattinson era molto più anziano della sua consorte e possedeva molti soldi; ora che è morto, tutta la sua eredità andrà alla moglie. E poi, il coltello con il quale è stato ucciso era dello stesso tipo dei coltelli che si trovano nella cucina della sua dimora.”
“Quindi lei presume che sia stata la moglie ad ucciderlo?” chiesi; lui mi rispose: ”Quell’uomo era molto alto e robusto e la donna era molto magra, non sarebbe riuscita a ucciderlo. Ci deve essere un altro uomo di mezzo, l’amante della donna!”
Non capivo come avesse scoperto il tradimento, allora domandai: “Cosa le fa pensare questo?”
Lui affermò: “Non lo penso, ne sono sicuro: quando ho controllato la casa, sono entrato nella stanza da letto e, nell’armadio, ho trovato dei vestiti da uomo taglia M, troppo piccoli per il signor Pattinson; non potevano neanche appartenere alle figlie, poiché sono capi prettamente maschili.”
Alla fine, la signora Pattinson e il suo complice vennero arrestati per l’omicidio e condannati a morte.
Le figlie, qualche giorno dopo, inviarono una lettera per ringraziare me e il mio collega: scrissero che non erano venute subito a conoscenza della morte del padre, dal momento che non vedevano i genitori da molto tempo, e che, alla fine, la ricchezza del padre l’avrebbero ereditata loro.
Vania Danile
Omicidio dietro omicidio
Nell’immensa sala della casa, giaceva un corpicino insanguinato con il pallido viso…un cadavere, si direbbe, lasciato lì per terra. Un’ora dopo, la casa era sommersa dai membri della polizia scientifica e, ovviamente, accanto a loro non poteva mancare Sherlock Holmes, colui che avrebbe risolto il caso. Il grande investigatore era solitamente affiancato da Watson, il suo più fedele collaboratore, ma stavolta era da solo, poiché la sua spalla destra si era ammalata.
Iniziò subito a osservare ogni minimo dettaglio. Gli fu impossibile non notare che il sangue, di cui il corpo era imbrattato, era stato aggiunto in seguito, poiché non era presente nessuna ferita in grado di causare un’emorragia.
Il corpo apparteneva a John Kennedy, un ragazzo di ventuno anni, i cui genitori erano morti cinque anni prima in condizioni misteriose; il loro caso era stato archiviato per assenza di prove.
Come aveva già intuito Holmes, il sangue non apparteneva al ragazzo, ma era finto; la causa della morte, infatti, era il soffocamento. Il decesso, inoltre, era avvenuto intorno alle sette di sera.
Una volta scoperto ciò, Holmes iniziò a indagare sulla sospetta morte dei genitori; doveva esserci un collegamento con l’assassinio del ragazzo, ne era convinto. Quello che si sapeva della loro morte era che la notte del ventiquattro novembre di cinque anni prima la coppia, durante il tragitto verso casa, fu accoltellata e, a seguito di ciò, perse la vita. In casa della vittima era presente un calendario risalente proprio all’anno in cui i due genitori erano stati uccisi e, accanto al numero ventiquattro del mese di novembre, vi era un appunto con su scritto: “restituire soldi alla S.C.I”; quella sigla apparteneva alla più grande organizzazione criminale d’Inghilterra…doveva essere coinvolta nell’uccisione della coppia…
A Holmes cominciava ad apparire tutto più chiaro: John doveva aver scoperto qualcosa sulla morte dei genitori, probabilmente aveva chiesto di parlare con la polizia e qualcuno doveva essersi presentato in casa sua per ucciderlo, fingendosi un agente; questo voleva dire che, all’interno della polizia, c’era una talpa. Holmes, allora, riportò quanto scoperto a uno dei poliziotti di cui lui più si fidava, l’agente Smith, ma, quando gli spiegò la situazione, questi cambiò atteggiamento e, a un certo punto, disse di dover andare un attimo alla toilette. Tuttavia, Holmes avvertì che i suoi passi stavano ben presto trasformandosi in una corsa e che l’agente stava scappando. L’investigatore, allora, uscì dalla porta e iniziò a inseguirlo. Smith era però molto lento, per cui venne facilmente catturato e, infine, messo sotto processo.
Virginia Fiorentini
La partita
Era un tranquillo pomeriggio domenicale per John Watson e Sherlock Holmes, che si trovavano nell’ufficio di quest’ultimo a condividere un caldo tè. Discutevano del più e del meno, quando sentirono qualcuno bussare alla porta con pesanti pugni. Watson si affrettò ad aprire.
Era un anziano signore, sembrava terrorizzato, aveva gli occhi lucidi, non aveva fiato e quasi non riusciva a parlare, probabilmente perché era venuto di corsa.
Watson lo invitò a entrare, ma lui rifiutò e cominciò a spiegare il motivo del suo arrivo inaspettato.
Era morto Jack Patt, un ricco industriale, proprietario di una fabbrica di lana che si trovava nei paraggi; lui spiegò essere il suo maggiordomo di fiducia, nonché colui che aveva ritrovato il corpo.
Watson rimase sconvolto: conosceva bene Jack e fu molto dispiaciuto dell’accaduto.
Sherlock Holmes assunse la sua tipica espressione indifferente; andò a prendere la sua solita valigetta e si preparò a una nuova investigazione.
Il vecchio li condusse suo luogo del delitto, la casa del deceduto, più precisamente il suo bagno. Nell’abitazione c’erano anche la moglie di Jack, sua sorella, alcuni amici stretti e i molti domestici che vi lavoravano.
Alla vista del corpo, freddo e disteso sul pavimento, Holmes e Watson rimasero fermi come statue per qualche secondo. Poi il detective si avvicinò e iniziò a osservarlo attentamente.
Dall’osservazione, concluse che l’uomo doveva essere morto a causa di un forte colpo alla testa, dal momento che, all’altezza dei capelli, era presente un enorme alone di sangue.
Iniziò a girare intorno al cadavere, ma non trovò altro indizio; comprese, così, che avrebbe dovuto interrogare qualcuno per ottenere ulteriori informazioni e avviare un’indagine.
La prima a essere interrogata fu la moglie, che affermò di essere uscita di casa per sbrigare alcune commissioni proprio all’ora del delitto. I domestici, invece, raccontarono di essere stati impegnati al piano terra per la preparazione del pranzo del giorno. Sherlock Holmes, davanti a queste risposte, si mostrò confuso: non aveva alcuna idea di cosa fosse successo.
Decise, quindi, di scendere al piano terra e osservare meglio l’abitazione, sperando di trovare qualcosa. Scoprì che quel giorno si sarebbe dovuto tenere un pranzo con tutti i membri del Club di cricket, cui appartenevano anche i signori Patt; infatti, la mattina stessa era stata giocata una partita.
All’interno della casa, trovò tutte le sacche contenenti le mazze da cricket, con i nomi dei proprietari ricamati sopra; tuttavia, ne mancava una: quella della moglie.
Da lì iniziò a collegare alcuni pezzi del puzzle, ma quella per lui non fu la prova definitiva. Voleva ottenere la confessione della donna per essere sicuro.
Ormai, però, si era fatto tardi, era troppo stanco per continuare, così lui e Watson decisero di tornare a casa e portare a compimento il caso l’indomani mattina.
Quella notte, Sherlock Holmes non riuscì a chiudere occhio: pensava allo strano odore che gli era rimasto impresso nel corso dell’ispezione a casa dei signori Patt. Quando finalmente realizzò che si trattava dell’odore del legno appena arso, arrivò alla conclusione che la signora Patt aveva bruciato la sua mazza da cricket nel camino dopo aver colpito il marito con un colpo secco. Così balzò subito fuori dal letto, cominciò a prepararsi e, di buon mattino, si recò nuovamente a casa Patt in compagnia di Watson.
Al loro arrivo, i due scoprirono, sgomenti, che era da poco avvenuto un altro omicidio: proprio quello della signora Patt. Salirono in camera sua e trovarono la finestra completamente spalancata.
Watson riteneva che si fosse trattato di un suicidio e che la signora avesse capito che di lì a poco sarebbe stata smascherata; ma Sherlock Holmes, non convinto della tesi dell’aiutante, ispezionò la stanza e notò una svolta nel tappeto. Tale svolta nascondeva una botola; i due investigatori vi entrarono e trovarono la sorella della vittima: una volta scoperta, la donna confessò di aver spinto la signora Patt giù dalla finestra per impossessarsi dell’eredità che avrebbe ottenuto dal marito appena defunto.