Quando nel settembre del 1990 venne ammazzato il giudice Livatino, lui aveva appena 25 anni ma aveva già dato vita nel suo paese, a Canicattì, a quell’associazione di giovani chiamata “Tecnopolis”. Un progetto per cercare diriscattare la cittadina, già colpita dalla feroce esecuzione mafiosa del giudice Saetta e di suo figlio. Poi l’altro agguato al “giudice ragazzino” e la vocazione improvvisa che l’induce ad entrare in seminario ad Agrigento. Oggi padre Giuseppe Livatino, 55 anni, rettore della Chiesa di San Giuseppe a Canicattì, direttore dell’emittente diocesana “Radio Concordia”, primo postulatore del processo di beatificazione all’interno della diocesi agrigentina e attuale referente del postulatore generale nella causa del martire della Chiesa, usa le parole dell’arcivescovo emerito, monsignor Carmelo Ferraro per ricordare l’ormai Beato Rosario Livatino: “Gli assassini, senza saperlo, anziché spegnere quella luce hanno acceso un candelabro”. Don Giuseppe, che vanta una lontana parentela con il prossimo Beato, è fra coloro che hanno aiutato la Chiesa a ricostruire la vita del magistrato assassinato raccogliendo la documentazione necessaria(oltre 4 mila pagine e 45 testimonianze) per riconoscere in questa figura la sua luminosa vita cristiana e civile. Nel corso del processo diocesano, durato ben sette anni, sono stati superati momenti difficili. “Le difficoltà non mancano mai – racconta padre Giuseppe – a partire dalle tante richieste di deporre al processo, magari rifiutate o ignorate. Poi a sorpresa è giunta la richiesta di deposizione di uno dei killer di Livatino, Gaetano Puzzangaro, che ci ha dato grande fiducia nella possibilità di chiudere positivamente il processo diocesano con un ventaglio completo di testimonianze. Puzzangaro l’ho incontrato quand’era ristretto in carcere di Opera, a Milano, mentre stava facendo un percorso di conversione e di fede. Quest’uomo mi ha ripetuto più volte e in maniera ossessiva, la frase: “se potessi tornare indietro…!”.
Don Giuseppe, che conosce a fondo la vita del magistrato ucciso, ricorda molti episodi che gli sono stati raccontati e in particolare uno, attestante l’incorruttibilità di quel magistrato, il primo nella storia della Chiesa ad ottenere questo importante riconoscimento. “Si tratta di un episodio che raccontò l’insegnante di religione di Rosario, che una volta chiese a Livatino una piccola raccomandazione. Lui,a quella richiesta rispose, sorridendo ma in maniera determinata: “Ma lei, quando confessa, accetta raccomandazioni?.
Rosario Livatino era fatto così – prosegue don Giuseppe. –Con gli anziani genitori intratteneva un rapporto straordinario. Quando rientrava a casa dopo il lavorod’ufficio, iniziava il secondo dovere: accudire mamma e papà. Li accompagnava ovunque, quando avevano problemi di salute e a loro dedicava le giornate domenicali, portandoli a Messa, spesso anche fuori Canicattì, e poi a pranzo al ristorante”.
Ma i ricordi di don Giuseppe non si fermano qui: “Intervenendo sul luogo di un omicidio di mafia, un boss era stato colpito a morte nel corso di un regolamento di conti,. mi è stato riferito che, ad un investigatore, che quasi gongolava accanto a quel corpo senza vita, Livatino disse: “Di fronte alla morte chi ha fede, prega. Chi non ce l’ha, tace!”. Nella sua conferenza su “Fede e diritto” il magistrato aveva ben espresso la concezione deontologica della sua funzione. Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere. Decidere è scegliere e a volte scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare (…) Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. La testimonianza umana e cristiana di Rosario Livatino – conclude don Giuseppe – è così diventata insegnamento quotidiano per tanti uomini e donne desiderosi di vivere le beatitudini evangeliche in modo credibile”.
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