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Home » La mediterraneità della Magna Grecia » Agrigento, Pirandello e il Mediterraneo

Agrigento, Pirandello e il Mediterraneo

Elio Di Bella Di Elio Di Bella
24 Settembre 2024
in La mediterraneità della Magna Grecia, Cultura
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La mediterraneità della Magna Grecia in armonia con Agrigento Capitale Italiana della Cultura 2025

 La Soprintendenza siciliana del Mare da alcuni anni mostra un grande interesse verso lo specchio d’acqua antistante la costa agrigentina. I relitti di antichi naufragi raccontano agli archeologi un passato di frequentazione marina che fa pensare che le coste di questo angolo della Sicilia abbiano richiamato, fin dai tempi più antichi, i popoli più potenti; qui, i legami con i popoli del Mediterraneo, sia dal punto di vista etnico che commerciale, sono stati sempre intensissimi.

I popoli dell’Egeo furono, secondo le ricerche storiche, i primi stranieri che occuparono le coste del territorio dove poi nel 580 a.C. sorse Akragas. La tradizione leggendaria dei rapporti fra la Sicilia e Creta, riportata da Erodoto e da Diodoro, vuole che Kamikos, la capitale del re indigeno Kokalos, costruita per lui dall’artefice Dedalo, si trovi proprio in questa parte della Sicilia. A Kamikos avrebbe trovato la morte il re di Creta Minosse, venuto in Sicilia per riprendere con sé Dedalo, fuggito dalla prigione di Cnosso nella quale era stato rinchiuso per aver favorito i mostruosi amori fra la moglie di Minosse e un toro, dai quali era nato il Minotauro. Leggende che ci riportano alla fine del XV secolo a.C. quando la Sicilia si integrò nei circuiti commerciali mediterranei grazie ai micenei. È probabile che gruppi umani provenienti dall’Oriente si siano insediati stabilmente nell’isola contribuendo alla gestione di grandi empori commerciali. Uno di questi empori mercantili è stato scoperto a Cannatello, una contrada marina di Agrigento.  Qui c’era un emporio   inserito nella rotta micenea che nel XIII secolo collegava Cipro alla Sicilia ed era uno scalo importante per la commercializzazione del salgemma e dello zolfo di cui era ricca la zona.  

Una ricchissima bibliografia storica fa fede della marittimità del litorale sudoccidentale della Sicilia fin dalle epoche più remote, e, per tutti, basterebbe citare il volume di Gaetano Maria Columba, pubblicato nel 1906, dove si  ricorda che il porto agrigentino – posto sul fiume e nei pressi del quale sono stati trovati sia gli avanzi di antichi moli  sia le rovine dei magazzini che ivi sorgevano – faceva parte di un imponente circuito commerciale, operante, oltre che con la Grecia, anche con Cartagine.  

Agrigento nasce vicino al mare e rimane fino alla conquista araba molto vicina al mare.

 La sua prima moneta riporta il simbolo della città: un granchio (Fig. 1).

La parola greca Χηλαι (granchio) può significare sia le chele del granchio che i bracci di un porto, e il granchio verrebbe a essere un’allusione al porto di Akragas e alla sua vocazione marittima.

La scelta del sito per la fondazione di Akragas fu particolarmente felice. Lo comprese Polibio che loda la città in quanto vicina al mare “partecipa di tutti i vantaggi, che dallo stesso provengono”. Secondo Diodoro Siculo, la città divenne presto ricca e splendida grazie ai commerci che esercitava con l’Oriente e con la vicina Cartagine.

Virgilio immagina che Enea, facendo il giro della Sicilia da oriente verso occidente, avvisti dal mare Akragas: “Molto da lungi il gran monte Akragante vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge”.  La città anche da lontano faceva bella mostra delle sue mura inespugnabili, ma anche delle sue spiagge. La frase di Virgilio scolpisce i luoghi, e chi li guarda dal mare riceve precisamente l’impressione di un mondo legato profondamente alla costa.

Nel V secolo a.C.  il filosofo agrigentino Empedocle definiva il porto di Akragas «augustissimo» e la flotta del tiranno agrigentino Terone sconfiggeva i cartaginesi nel porto di Imera, nel corso della celebre battaglia che vide insieme Akragas e Siracusa sconfiggere Cartagine.

Durante la dominazione romana in Sicilia, Cicerone, nel noverare i furti del pretore romano Verre, accenna alla copiosa quantità di frumenti esportata dall’emporio agrigentino, insieme a sale e zolfo. Ad inserire la città in una delle più frequentate rotte del commercio del Mediterraneo è valso per molto tempo infatti lo zolfo, ma anche il sale, prezioso nei vari impieghi (alimentare, terapeutico, di conservazione e quindi industriale).

“Fin dall’epoca micenea il fiume Platani (non lontano da Agrigento) era stato via abituale per il trasporto del salgemma verso i mercati del Mediterraneo; e la distruzione di Gela (280 a.C.) e la scomparsa di Eraclea (I secolo a.C.) erano valse a convogliare sull’emporio agrigentino tutta l’ampia produzione destinata all’esportazione”, ha scritto Illuminato Peri.

Durante il periodo romano l’emporium di Agrigentum molto famoso e Strabone, il geografo vissuto al tempo di Cesare e di Augusto, testimoniò che quello di Agrigentum era il più notevole scalo della costa meridionale dell’isola. Quando poi Sesto, figlio di Pompeo, fu sconfitto da Ottaviano, nel 35 a.C., Agrigentum cambiò padrone e restò nella condizione di sottomessa, perdendo anche la sua importanza marittima. Si trattò pur sempre di una decadenza relativa, se è vero che anche al tempo delle invasioni barbariche, secondo una testimonianza di Procopio, mentre Totila si apprestava a riacquistare i perduti domini, le navi di Agrigentum fornivano al papa Vigilio, nel VI secolo, abbondante quantità di frumento, uomini e legni da carico.

L’antico emporion della polis agrigentina, fu approdo della città sino all’epoca romana e bizantina.

Lo storico Tommaso Fazello notò nell’area della foce dei saxa quadrata, resti delle banchine del porto classico che si estendeva lungo le sponde del fiume Akragas. Certamente, come era uso tra gli antichi, vi erano grandi ‘hangar’ dove erano tirate a secco le navi militari e banchine per le attività commerciali. D’altra parte, come sottolinea lo storico Schubring, il naviglio mercantile dell’epoca antica non richiedeva grandi attrezzature portuali; pertanto, l’emporium agrigentino fu piuttosto un semplice ancoraggio o, meglio, un epileion come lo chiama Strabone, sufficiente al commercio esercitato dalla città. 

Con la decadenza dell’emporium di epoca romana, venne invece utilizzata una spiaggia qualche chilometro a ponente, dove sarebbe poi sorto il porto dell’attuale Porto Empedocle. Questo nuovo approdo venne utilizzato soprattutto a partire dall’occupazione araba della città. Su questa costa, la presenza, nel costone marnoso che delimitava a nord la spiaggia, l’erosione carsica ha dato forma a grandi fosse che sono state utilizzate sin da IV secolo come “buche da grano”, ossia come magazzini naturali per il frumento. Una strada dalla collina – dove venne edificata dagli arabi la nuova città – la collegava al Caricatore arabo. I caricatori erano soprattutto punti di imbarco e di sbarco delle derrate, piuttosto che delle strutture marittime. Tali derrate venivano portate dagli uomini di mare che si inoltravano in acqua per portare le merci a spalla sino a delle barche con cui poi raggiungevano i bastimenti più distanti.

Divenuta   capitale dei berberi, Agrigento venne a trovarsi in discordia con Palermo e le navi da guerra agrigentine destarono grande preoccupazione presso l’esercito palermitano che decise di ritirarsi subito dalla lotta. Durante gli assalti dei normanni gli agrigentini si distinsero per il loro grande valore. In una di queste battaglie però Ibn-al-Wend, che era stato uno degli strenui difensori dell’araba Kerkent (da cui Girgenti) durante i primi assalti normanni, perì combattendo coraggiosamente.

Con l’arrivo dei normanni, che conquistarono la città nel 1092, sottomettendo i musulmani e riportando ad Agrigento la fede cristiana, 

“la città nostra presentava all’entrar dei normanni un grande movimento commerciale ed industriale e fecondo di pubblica e privata ricchezza – ha scritto lo storico agrigentino Giuseppe Picone nelle Memorie storiche agrigentine

 – la marina nostra si raccolse nel sito ove sorge Porto Empedocle ed ivi, scavate nella marna compatta ampie e profonde fosse e costruiti magazzini, serbò i grani e qualunque specie di derrate che si esportava o per l’estero o per cabotaggio.

Ancora alla fine dell’undicesimo secolo, Edrisi, famoso geografo arabo,  nel suo celebre libro di geografia generale  della città di Agrigento, che in quel periodo veniva chiamata Girgenti, scrive “Quivi si adunano le navi e le brigate… Ne’ mercati di Girgenti si ritrova tutta sorte di lavorìi, e tutte specie di derrate, e di merci…Per l’immensa copia delle derrate che vi affluiscono continuamente, egli avviene, che tutte le navi grosse che vi approdano, compian quivi il carico loro, entro pochi giorni, e n’abbian anco di avanzo”. Ancora alla fine del primo millennio quindi Agrigento godeva in Sicilia e nel Mediterraneo di un prestigio incontrastato per i suoi traffici marittimi.

Divenuta città demaniale, Girgenti strinse importanti rapporti commerciali nel XII secolo con senesi e amalfitani che giunsero nella terra agrigentina per esercitarvi i loro commerci e i loro traffici e parecchi di loro rimasero a lungo nei centri urbani della provincia.

Nel corso delle crociate non mancò il contributo dei cristiani di Girgenti, ma nel 1194, proprio durante quelle guerre i cavalieri teutonici, trovarono un pretesto per impadronirsi della Città dei Templi e del suo porto, ritenendolo fondamentale per i traffici commerciali ma anche come presidio militare.

Dopo la Sicilia passò sotto il potere degli angioini e vennero gli anni cruenti della guerra del Vespro e le galee degli aragonesi andavano e venivano dai porti di Licata, Sciacca e Girgenti. Sono gli anni in cui si distinsero il barone Luigi Mugnos da Licata – che capitanava una galea e partecipò a molte battaglie – e Federico ed Enrico Incisa di Sciacca che ebbero parte nella difesa della loro città dagli assedi del tempo. Un documento storico indica nella marina di Girgenti nel XIV secolo la presenza di una torre medievale, ma presto non fu sufficiente né per l’avvistamento, né per la difesa. Nel sedicesimo secolo, a causa della pirateria barbaresca e dello sviluppo delle armi da fuoco, per difendere meglio il litorale agrigentino, il viceré spagnolo don Giuseppe Vega fece edificare nel 1554 una torre di avvistamento (detta di Carlo V), dotata di cannone, che è tuttora visibile. Dopo la costruzione del molo, nel Settecento, divenne la base di appoggio della difesa della riviera meridionale, perché da allora la costa venne pattugliata da due navi da guerra che partivano da Siracusa e Trapani e vi ritornavano dopo essere arrivate al porto di Girgenti. In conseguenza vi fu un calo delle incursioni barbariche.

Un diploma conservato nella biblioteca del Senato di Palermo definì il Caricatore di Girgenti come “lo migliuri del Regno”.

Un altro storico agrigentino ha descritto in termini entusiastici il successo del porto agrigentino dall’epoca medievale agli inizi del rinascimento:

“Il nostro caricatore era l’unico in tutta la meridionale riviera di Sicilia e nella nostra rada approdavano moltissimi legni che in pochi giorni fornivano il loro carico ed espandevano i nostri prodotti agricoli fin nell’Oriente per cagione della guerre della crociate e da quelle estreme regioni importavano fra noi quelle merci preziose e quelle ricchezze che furon talmente fra noi profuse che nel secolo XV dal governo un infrenamento al lusso delle donne girgentine”.

Non mancavano però le difficoltà; per lunghi secoli la pirateria dei barbareschi fece il bello e il cattivo tempo.   La più antica incursione barbaresca alla marina di Girgenti ricordata sino ad oggi dagli storici avvenne il 5 maggio 1599. Qualche anno dopo, nel 1615, al largo di Girgenti si scontrarono le galee dell’Ordine di Malta e quelle turche. Poi le incursioni barbaresche terminarono e vi fu una nuova ripresa dei commerci.

In un portolano dei primi anni del 1700, conservato nella Biblioteca “lucchesiana” di Agrigento, leggiamo

«la fortezza con il caricatore della città di Girgenti, che tiene buonissima artiglieria…a magazzini dove ripostono i fromenti… e dove si ormeggiano bastimenti latini di salme 300 e pure di 400, basta che si possano servire di palmi 9 di fondo, con haver poca zavorra… La città di Girgenti è distante dalla marina miglia 4, quale è abbondantissima di ogni cibo, perciò detta città del sorgitore…».

Nel periodo in cui in Sicilia governava la monarchia borbonica comincia un risveglio economico e si ebbe quindi la necessità di dare nuovo impulso all’attività del porto con l’ampliamento dello scalo e venne realizzato un nuovo molo di forma poligonale, terminato nel 1763.  Così, mentre il porto di Messina decadeva, come scrive il Picone, «in quel novello asilo di navigli, unico nella riviera meridionale dell’Isola, si videro sventolare le bandiere di tutte le Nazioni».

Con la costruzione del nuovo molo a Porto Empedocle, voluta dal vescovo di Girgenti Lorenzo Gioeni, la vita nel porto agrigentino assunse sempre di più l’aspetto di una moderna attività industriale.

Ma vogliamo adesso guardare al rapporto tra Agrigento e il mare, attraverso i pensieri e la poetica del più illustre tra gli agrigentini: lo scrittore Luigi Pirandello (Fig. 2).

Il Mediterraneo è stato in più occasioni centro catalizzatore della fantasia del premio Nobel della Letteratura Luigi Pirandello. 

Non poteva essere diversamente, secondo lo stesso scrittore siciliano. 

“Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natìa 

circondata dal mare immenso e geloso”,

ci ha ricordato Pirandello, pronunciando il discorso in occasione della morte di un altro grande della letteratura europea per il quale il mare è stato una immensa metafora: Giovanni Verga.

“La sicilianità della sua narrativa ebbe uno strettissimo rapporto con la civiltà del Mediterraneo, dalla quale colse temi, contesti, e personaggi”, ha scritto Karl Chircop (La Sicilianità Mediterranea in I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello).

Nasce il 28 giugno 1867 Pirandello dentro una sterminata dinastia palermitana di gente di mare.

Nel libro “I Pirandello del mare” di Mario Genco a proposito della Famiglia Pirandello, si legge: «avevano traffico col mare dai tempi remoti che i bastimenti si chiamavano pinchi, bovi, feluche; poi furono golette, brigantini a palo e grandi velieri a tre e più alberi. Quando il vapore sostituì il vento, comandarono piroscafi e transatlantici, parteciparono come azionisti e diressero compagnie di navigazione, fino agli anni Cinquanta del Novecento».

I Pirandello, infatti, navigavano e armavano bastimenti da tempi remoti e fondarono e diressero compagnie di navigazione. Il nonno di Pirandello, Andrea, spedì il figlio Stefano in Sicilia per curare i suoi affari di imprenditore nel mercato dello zolfo e Stefano si trasferì nel 1867 in una casa al mare, quando a Girgenti (Agrigento) si moriva per il colera. Ed in celebri versi Pirandello ricorda che in quei giorni di terrore vide la luce, in una casa di fronte “il mare aspro”.

Una casa e il mare a poche centinaia di metri a cui pensò spesso: 

“Casa romita in mezzo a la natia

campagna, aerea qui, su l’altipiano

d’azzurre argille, a cui sommesso invia

fervor di spume il mare aspro africano…”

(Pirandello, Ritorno)

Di quella casa natia, in contrada Caos, Pirandello poteva ammirare il mare, lontano poco più di duecento metri. Vi arrivava percorrendo un viale polveroso di sabbia, fiancheggiato da erbe rigogliose, che rasenta il greto di un burrone profondo e desolato e infine sfocia al mare.

 Ma siamo certi che l’adolescente Pirandello soprattutto ammirava quel suggestivo mare africano seduto all’ombra del grande pino mediterraneo, alto venti metri, a cui arrivava percorrendo un breve stretto sentiero, che ancora oggi i turisti fanno per vedere il masso cui si trovano le ceneri del premio Nobel.  

L’aspro mare africano torna molte volte nelle pagine pirandelliane a dare «spume» e infinite variazioni d’azzurro come un’eterna melodia variata in tutte le possibili modulazioni. Un rapporto simbiotico di nostalgie e di affetti quello pirandelliano con la spiaggia sotto casa e con l’antico Molo di Girgenti; ivi veniva imbarcato lo zolfo delle miniere di suo padre, che lui pesò per tre mesi estivi nel 1886 e dove – oltre al suono del frangersi delle onde sulle “due ampie scogliere del nuovo porto” – udiva anche “lo strepito e i fischi di un treno che attraversa la spiaggia” per concludere la sua corsa nella stazioncina dell’industrioso Porto Empedocle. Qui, di fronte la Torre di avvistamento voluta da Carlo V e “oltre il braccio di levante fanno siepe alla spiaggia le spigonare con la vela ammainata a metà su l’albero”.  Ma soprattutto da quella borgata marina “venivano in tumulto sullo spuntar del giorno i cosiddetti pescatori”. 

Fin da ragazzo Pirandello viene così a contatto con la realtà abbastanza misera degli uomini di mare, dei carrettieri, dei mozzi delle spigonare, dei giovani di magazzino, dei pesatori e degli scaricatori ed ama quell’angolo di mare Mediterraneo “perché lì, sulla spiaggia, urge la vita”.

Con quali sentimenti Pirandello guardasse a questa vita, forse possiamo coglierlo dalle pagine della novella “La maestrina Boccarmè” dove la protagonista – passeggiando lungo il molo e guardando le navi ormeggiate – immagina che arrivino “d’un lontano ignoto che la faceva sospirare” e poi indugiava con piacere nel vedere che “Tanti accorrevano allo scalo per comperare il pesce fresco per la cena” e restava a lungo “a guardar le navi, a interessarsi alla vita di bordo”. Affatto infastidita dal “grassume di quell’acqua chiusa, sulla cui ombra vitrea, tra nave e nave, si moveva appena qualche tremulo riflesso”. E infine, “sollevando con gli occhi tutta l’anima a guardare nell’ultima luce la punta degli alti alberi, i pennoni, il sartiame, provava in sé, con una gioja ebbra di freschezza e uno sgomento quasi di vertigine, l’ansia del tanto, tanto cielo, e tanto mare che quelle navi avevano corso, partendo da chi sa quali terre lontane”.

In questo habitat mediterraneo, punto di incontro tra il sofismo ellenico, l’immobile destino latino e lo spirito fatalistico ma scintillante ed operativo arabo, lo scrittore si trovava a contatto con una terra che non avrebbe più dimenticato nella sua fortunata quanto dolorosa anabasi che lo fece diventare irrequieto cittadino di terre e di mari. L’unico luogo – se vogliamo credere alla testimonianza che Corrado Alvaro ha lasciato nella sua prefazione alle Novelle per un anno – di cui egli rammentava “luoghi, aspetti, ore; e sì che aveva viaggiato parecchio mondo… Quella balza, quel colle, quei templi, quella campagna, il mare…”.

Ma forse con più sofferta partecipazione, Pirandello assisteva allo spettacolo che gli si svolgeva intorno e sotto gli occhi sulle banchine di Porto Empedocle:

«Scendendo alla spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l’albero, in attesa del carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi di zolfo. Sotto alle cataste s’impiantavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Scalzi, in calzoni di tela, gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca, e le spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto o fuori» (Pirandello, Lontano).

E sapeva bene l’agrigentino Pirandello che tutto ciò accadeva perché qui 

“Non si costruiscono le banchine sulle scogliere del nuovo porto, da cui l’imbarco si potrebbe fare più presto e comodamente coi carri e coi vagoncini, perché i pezzi grossi del paese sono i proprietari delle spigonare” 

(Pirandello, I vecchi e i giovani).

Mare, barche, pescatori sono i soggetti preferiti da Pirandello quando, giovanissimo, si abbandona alla gioia di realizzare, dipinti a olio, piccole tavole in pieno stile ottocentesco.

Il mare diventa paesaggio dell’anima anche nel quadro “Marina di Porto Empedocle”.  “Pirandello cerca nel mare un modo per godere, per lui le profondità marine sono i luoghi, dove la sovrapposizione del reale e del fantastico si confonde fino ad annullarsi” (Carlo Di Lieto, Pirandello pittore).

Nella scrittura e nella pittura il paesaggio mediterraneo, ora onirico ora reale, appare costantemente quale scenario privilegiato e significativo. Un paesaggio che, come notato da Assunta De Crescenzo, “assume nell’opera di Pirandello un ruolo che non è puramente descrittivo o decorativo, ma diviene esso stesso parte attiva, nucleo propulsivo della rappresentazione”.

Il mare di Porto Empedocle è un luogo emblematico in cui gli eventi quotidiani forniscono a Pirandello sia   diversi   momenti di umanità, sia un’infinita varietà di paesaggi che   non vengono usati come elemento di decorazione o di cornice, ma hanno un valore intimo che nasce dall’osservazione della realtà dei luoghi in cui ha vissuto e pertanto si rivestono funzionalmente della visione pirandelliana della vita. 

I luoghi della marina in cui è nato fanno parte della perenne recitazione della vita per lo scrittore che ha rivoluzionato il teatro nel Novecento.

Napoli, settembre 2024

_________________________

Elio di Bella, già docente di Storia e Filosofia, è scrittore e giornalista; numerose pubblicazioni e saggi su storia, cultura e identità di Agrigento; con la sua tesi sul romanzo storico di Pirandello “I Vecchi e i Giovani” ha conseguito il Premio Mursia; il suo ultimo saggio pubblicato, “Agrigento ieri e oggi. Una storia da riscrivere”, ha ottenuto i Premi Ignazio Buttitta 2023 e “Scala dei Turchi. Dina Russiello” 2023.

È stato referente per il Comune di Agrigento per la promozione dei processi di riscoperta e valorizzazione dell’identità agrigentina. È presidente di Bcsicilia Agrigento (Beni culturali Sicilia).

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