Elucubrazioni sul Potere
di Salvatore Nocera Bracco
Guardando bene dentro gli anfratti di questa nostra Terra così vergine e puttana – come la Chiesa, che Sant’Agostino amava definire, proiettando il suo vissuto e in parte giustificandolo: casta e meretrice! – guardando bene dentro questa nostra struttura sociale così poco equilibrata e lontana dal sostenere i reali bisogni delle Persone – e niente affatto trasparente – mi sale su come una specie di rigurgito gastro-esofageo la domanda impossibile: cos’è il Potere? E con la “P” maiuscola”? Intanto il potere, reputo, non si conquista. Semmai si conquista il diritto di esprimere il proprio. Anche se con tale diritto in realtà si nasce. Ma, per una serie di eventi estranei alla persona, questo diritto, crescendo, la maggior parte se lo lascia sfuggire, soprattutto per rinuncia, demandando a pochi altri la scelta di (potere) gestire il proprio quotidiano. Di solito intendiamo il Potere come qualcosa che limita la libertà di molti, rendendo quella di pochi un privilegio. Chissà se interessa ancora a qualcuno il pensiero di Danilo Dolci. Soprattutto sul rapporto tra Potere e Comunicazione. Il potere, intanto, secondo Dolci, è una possibilità di fare e di fare insieme ad altri: “È potere costruire insieme una casa o una strada; così come è potere allattare un bambino. Altra cosa è il dominio, degenerazione ed abuso del potere, che dà ad alcuni possibilità che nega ad altri. Il potere sta alla forza come il dominio sta alla violenza. (…) La comunicazione è un processo bidirezionale, un dare e ricevere, chiedere e rispondere; la trasmissione è invece unidirezionale, prende la forma del diktat, del comando o della lezione scolastica intesa come semplice travaso di nozioni. Il potere è intimamente comunicativo, il dominio trasmette.”.
Io ho sempre avuto il sospetto di pensare. Ma tra pensareed essere non necessariamente esiste una correlazione. Semmai, al pensare consegue una certa dose di scetticismo. Tra diffidenza e dubbio. Senza necessariamente addivenire ad una qualunque Verità. A una verità qualunquista, forse sì: ciò che è altro da me non mi riguarda. Coscienza sociale? A questo serve il Pensiero, cioè la Ragione, a ratificare il proprio Scetticismo. E in effetti, qualche pensiero particolare, strano, anche il mio cervello lo ha prodotto sin da bambino. Qualcuno era davvero ossessivo, mi torturava la mente e mi impediva di dormire la notte, un pensiero naturalmente in italiano: “C’è chi frega e c’è chi è fregato”, il mio imprinting antropologico-culturale, per dir così, quando a sei anni sono approdato a Naro con i miei genitori fino ad allora emigrati al Nord. Ecco perché i miei pensieri erano prodotti ancora in italiano. Solo in un secondo tempo si sono trasformati in siciliano. Per cui C’è chi frega e c’è chi è fregato si è tradotto in C’è cu futti e c’è cu è futtutu. E finalmente ho capito che a Naro, anzi in Sicilia:
Esiste un potere che agisce
E qualcuno che lo subisce
Esiste un potere che assegna
Delle colpe soltanto ad alcuni
Che condanna e punisce
I soliti furbi lì avanti
Si proclamano simpatizzanti
Sono quelli che dalla calunnia
Il potere assolve ed accoglie
Come suoi militanti
Ma attenti miei cari signori
Che adesso ci sono i migliori (peggiori)
Sono quelli che colpe non hanno
Ma innocenti al potere non vanno
Sono i suoi detentori
Ma allora, che significa da noi: Potere? Stari di ncapu, accravaccari, supraniàri, chistu significa! Pirchì cumannari è miegliu di fùttiri. Tantu, cu futti futti, Diu pirduna a tutti. Cu futti. E i futtuti? Quelli noi, siamo! Siamo noi che scegliamo di essere fottuti. E per fare questo siamo pure capaci di scegliere qualcun altro che ci debba fottere, altrimenti, se non scegliamo qualcuno che ci fotte, come facciamo a scegliere di essere fottuti? Tutto chiaro? Mi sono spiegato? Dici: no, non ti sei spiegato. E chistu mi futti a mmia. Ma mica da ora! Da sempre.
Ecco a che serve pensare. A capire come stanno realmente le cose. E continuo a chiamarlo scetticismo. Ma il non pensare produce senza dubbio danni molto più deleteri. E ho l’impressione che la maggior parte di noi, oggi, si rifiuti di pensare. Perché non vogliamo capire quello che succede. Perché per capire quello che succede bisogna pensare. Viene l’altro e dice: “Vero è: se ci pensiamo succede di tutto. Il fatto è che succede lo stesso anche quando non ci pensiamo. E allora a che serve pensarci? Tanto quello che deve succedere succede sempre, ci pensiamo o non ci pensiamo, perciò cu si nni futti? (Appunto!) Ci sediamo a un tavolino di bar, prendiamo una granita, una brioche con gelato, una gazzosa – un caffè! – stiamo in silenzio e aspettiamo. Aspettiamo quello che dovrebbe succedere ma non succede mai. E invece quello che non dovrebbe succedere succede sempre.
Ed ecco come lo scetticismo si trasforma in fine ironia: perché noi siamo stati educati per secoli a favorire la partecipazione e la solidarietà sociale, altrimenti non si spiegherebbe la famosa frase: Fatti li cazzi to’ nun t’ammiscari ca mali ti nni veni si’ beni vo fari. E che vogliamo dire, invece, del profondo senso di creatività, di crescita, di evoluzione, di cambiamento che ci hanno inculcato, nel corso dei secoli? Megliu u tintu canusciutu ca u buonu a canusciri. Ma che razza di saggezza! Ogni tanto però ci risvegliamo, anche se dopo questo risveglio, ci troviamo schierati in due gruppi facilmente identificabili: da una parte i lamentatori, e dall’altra gli indolenti, cioè quelli che non gliene frega il resto di niente. I lamentatori: “Manca l’acqua, e chidda picca ca nni dunanu nn’a fannu pagari a pisu d’oru”. Gli indolenti: “E allura? Aspittamu ca chiovi”. Il fatto è che quando piove da noi s’arrizzola mezzo mondo: case, autostrade, montagne sane sane! “E si’ cadu malatu?” – “Ma che per forza cose storte ti devono capitare? Fatti il segno della croce e prega!” – “Ihhh! Murivo”. – “Finalmente, non ne potevo più di sentirti lamentare”.
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