Violento, impulsivo, burbero, scurrile, istrionico, spavaldo. Sono alcuni degli aggettivi che descrivono uno dei generali più noti, ma anche tra i più controversi della Seconda Guerra Mondiale.
Di sé ha lasciato un’immagine ben precisa: elmetto sempre in testa, uniforme impeccabile con stivali e pantaloni da cavallerizzo, nastrini delle decorazioni appuntati al petto, e infine un vistoso cinturone con al fianco un revolver Colt Peacemaker con calcio in avorio.
Stiamo parlando di George Smith Patton Jr. che il 10 luglio 1943, al comando della 7ᵃ Armata Americana, sbarcò sulle coste della Sicilia. Nato a San Gabriel, in California, nel 1885, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, era tra i generali americani più anziani e con una discreta esperienza militare alle spalle, avendo preso parte alla Grande Guerra ed essendo stato tra i pochi, nel periodo tra le due guerre, a dare un contributo significativo allo sviluppo e impiego dei carri armati in battaglia.
Ciononostante, molti suoi colleghi nutrivano forti dubbi su di lui convinti che non avrebbe fatto molta strada proprio in virtù del suo temperamento, circostanza che la campagna militare in Sicilia mise in evidenza in tutta la sua pienezza.
La smania di vittoria, l’ambizione smodata e l’accesa rivalità con l’omologo inglese Montgomery, fecero da sfondo a tutti i 38 giorni di battaglia sull’isola e furono causa di continui attriti all’interno del comando alleato.
In tale contesto, emersero tutti gli aspetti contraddittori del suo carattere. Se da un lato aveva ammirato le bellezze dell’isola – ad Agrigento, rimase estasiato della magnificenza dei templi –, a Licata, invece, andò su tutte le furie non appena vide una colonna militare ferma nei pressi di un ponte a causa di un carretto, il cui asino non voleva più sentirne di muoversi. A quel punto, estrasse la Colt dalla fondina e sparò senza pietà all’animale, gettando il carretto sul fiume per sgombrare il ponte.
Se in più di un’occasione, manifestò rispetto per l’audacia mostrata dai soldati italiani, in altre fece sfoggio di toni scurrili e denigratori nei confronti dei nemici. Frasi del tipo “Squartateli”, “Prendeteli a calci nel c…” erano all’ordine del giorno e, a suo modo di vedere, erano il modo migliore per comunicare con la truppa.
In Sicilia, in un discorso dal contenuto feroce rivolto agli uomini della 45ᵃ Divisione di Fanteria la frase “Nessun prigioniero! (…) È ora di uccidere! Voglio dei killer perché i killer sono immortali” fu presa alla lettera a tal punto che due di questi trucidarono, il 14 luglio e in due distinti momenti, 73 prigionieri (71 italiani e 2 tedeschi in quello che è noto come massacro di Biscari). Di questo tragico episodio, Patton fu considerato il mandante morale.
Il disprezzo di Patton nei confronti della viltà in combattimento toccò l’apice quando, all’interno di un ospedale da campo, schiaffeggiò un soldato in preda ad una crisi di panico. Fu costretto alle pubbliche scuse e, quando l’episodio divenne di pubblico dominio qualche mese dopo, i vertici militari lo rimossero dal comando assegnandolo ad incarichi di secondo piano.
Questi episodi hanno contrassegnato la sua figura a tal punto da offuscarne le abilità in campo militare. Sia in Sicilia che nelle altre campagne in Europa, Patton fu, senza alcuna ombra di dubbio, tra i migliori comandanti.
Se gli Alleati poterono sfondare in Normandia, il merito fu tutto suo che, con una cavalcata travolgente, mise alle corde i Tedeschi e, in meno di un mese, aprì la strada verso Parigi.
Il suo apporto risultò determinante anche durante l’offensiva delle Ardenne e, infine, nello sfondamento del Reno, dove, facendo ancora una volta sfoggio del suo istrionismo, scese dalla jeep e urinò sul fiume.
Terminò la guerra da autentico eroe, ma non fece in tempo a godersi la gloria. Morì il 21 dicembre 1945 per le conseguenze riportate in un incidente stradale avvenuto qualche giorno prima. La sua tomba si trova in Lussemburgo.