Il personale della Dia di Agrigento ha eseguito un sequestro di beni per un valore di oltre 500mila euro, nei confronti di due fratelli imprenditori, attivi nel settore edile e movimento di terra, Stefano e Gerlando Valenti, di Favara, agli arresti domiciliari per associazione mafiosa. Il provvedimento trae origine dalle investigazioni della sezione operativa di Agrigento, coordinata dal reparto indagini preventive della Dia, che ripercorrendo la loro “carriera” imprenditoriale e criminale a partire dagli anni ’90, ha messo in luce la “pericolosità sociale” di entrambi. VIDEO
Nei confronti di Stefano Valenti, è stato disposto, un sequestro dell’intero capitale sociale e del relativo compendio aziendale della società “Athe costruzioni Srl”, per l’attività di assunzioni appalti per i lavori del genio civile, con sede legale ad Agrigento. Nonché anche il 40 percento del capitale sociale della “Giarritella Srl”, con sede a Favara ed oltre 11 beni mobili registrati.
A Gerlando Valenti, invece, è stato sequestrato il 60 percento del capitale sociale della “Cogest Srl semplificata”, esercente l’attività di movimento terra con sede legale a Favara. Sequestrati anche 5 immobili e numerosi conti correnti, ma anche fondi comuni, investimenti e un cavallo di razza.
Nel dettaglio, nel 2018, i fratelli Valenti sono stati arrestati, insieme ad altri 76 soggetti appartenenti a Cosa nostra agrigentina, nell’ambito dell’operazione antimafia “Montagna”, e per i fatti contestati loro, sono stati condannati ad una pena di 6 anni e 8 mesi di reclusione ciascuno.
Stefano Valenti, come ricostruito dalla Dia, era già stato protagonista delle indagini di “Akragas 2” che avevano permesso di disarticolare l’associazione criminale Cosa nostra agrigentina. L’anno successivo, fu condannato a quattro anni di reclusione per associazione mafiosa (divenuta irrevocabile nel 2001).
Lo spessore criminale di Valenti, secondo quanto ricostruito dalla Dia, è stato anche avvalorato anche dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca. Nel 1997, che lo ha definito “uomo d’onore”, e in particolare “a disposizione” della consorteria mafiosa. Grazie a lui, secondo quanto emerso, Brusca – in quei giorni latitante – riuscì ad incontrare il capomafia di Canicattì Antonio Di Caro, per un certo periodo reggente della provincia di Agrigento.