C’è un dibattito silenzioso che attraversa Agrigento. Non sempre espresso a voce alta, si insinua nei discorsi quotidiani, nei bar, nei messaggi scambiati sui social o nelle chat tra amici. Riguarda la crescente tendenza a intitolare spazi pubblici – piazze, belvederi, strutture urbane – alla memoria di persone scomparse prematuramente o vittime di tragici eventi.
Un tema delicato, che tocca corde profonde, spesso difficili da nominare per timore di apparire insensibili. Ma su cui forse vale la pena soffermarsi, con rispetto e lucidità.
Perché ogni nome scelto per uno spazio pubblico è anche una dichiarazione culturale. I luoghi non sono solo contenitori fisici, ma raccontano chi siamo e cosa vogliamo tramandare. La toponomastica è un gesto che lascia traccia nel tempo e costruisce l’identità visiva ed emotiva di una città.
Ecco allora che ci si può legittimamente interrogare sul senso di alcune intitolazioni, soprattutto quando riguardano luoghi destinati alla bellezza, alla condivisione, allo svago. È giusto che ogni spazio venga caricato di un significato legato al dolore? O forse sarebbe utile immaginare anche luoghi capaci di parlare di speranza, di rinascita, di progetti comuni?
La memoria è essenziale. Ricordare significa custodire e dare valore al vissuto, contrastare l’indifferenza. Ma la memoria ha bisogno di contesti adeguati, di scelte ponderate, di un equilibrio tra ciò che si vuole onorare e l’anima dei luoghi.
Ogni città ha il diritto – e il dovere – di ricordare. Ma anche quello di vivere pienamente il presente e progettare il futuro. E allora, forse, il momento è maturo per avviare una riflessione più ampia e condivisa. Non per negare il dolore o rimuovere i ricordi, ma per distinguere i tempi e i modi del ricordo. Per lasciare spazio, accanto alla memoria, anche alla gioia, alla leggerezza, alla bellezza. Perché una città davvero viva è quella che sa ricordare. Ma anche quella che sa scegliere come farlo.
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