Nell’immaginario collettivo, l’architettura è spesso associata alla costruzione per aggiunta: templi maestosi, colonne erette,
città che sfidano il cielo.
L’architetto agrigentino Elvira Capraro, specializzata in Restauro dei Monumenti presso l’Università degli Studi La Sapienza
di Roma, nella ricerca che qui presentiamo ci trasporta in un’altra dimensione, più intima e misteriosa, dove l’architettura
nasce per sottrazione, scavando nella roccia per plasmare vuoti carichi di storia e spiritualità.
Questa pratica antica, descritta da Erodoto nel III secolo a.C. e ripresa da Sergio Polano, trova nella Magna Grecia uno dei suoi esempi più affascinanti: Agrigento, l’antica Akragas, custode di un patrimonio ipogeo straordinario.
La studiosa agrigentina sottolinea che, dalle città troglodite della Cappadocia alle chiese rupestri di Lalibela, l’uomo ha da sempre modellato la roccia per creare rifugi, luoghi di culto e sistemi idraulici. Nel Sud Italia, Matera e Napoli sono celebri per i loro paesaggi scavati, ma è ad Agrigento che questa tecnica raggiunge vette ingegneristiche e simboliche uniche. Qui, sotto l’opulenza dei templi dorici, si nasconde una città parallela: una rete di ipogei, cisterne e cunicoli progettati per convogliare acque, custodire grano e proteggere dagli assedi.
Elvira Capraro sfoglia gli scritti di Diodoro Siculo, grazie a cui sappiamo che l’architetto Feace, nel V secolo a.C., trasformò Akragas in un capolavoro di idraulica antica. Utilizzando prigionieri cartaginesi, realizzò una fitta rete di canali sotterranei che alimentavano la Kolymbethra, una monumentale piscina
sacra circondata da giardini rigogliosi. Gli ipogei agrigentini, scavati nella calcarenite dorata, uniscono pragmatismo e misticismo: dal Santuario Rupestre dedicato alle ninfe alle case troglodite del Rabato, testimonianza dell’eredità berbera medievale.
Tra i gioielli ipogei spicca la cisterna a campana sotto il Viale della Vittoria, un ambiente ipogeo di 60 metri con pareti rivestite di malta idraulica. Un habitat di cui Elvira Capraro si è occupata avendone curato gli interventi di recupero e riqualificazione della parete in calcarenite prospiciente la via Francesco Crispi ad Agrigento e la cisterna a campana inserita in tale contesto; durante i lavori di restauro, la ricercatrice giunge alla scoperta di graffiti che raccontano secoli di storia: date, nomi di soldati borbonici, simboli religiosi e persino un’amara annotazione del 1861: “Chi vuol vedere l’inferno venga a Girgenti”. Queste incisioni, insieme ai ritratti di Ferdinando II di Borbone, trasformano la cisterna
in un archivio sotterraneo, specchio delle turbolenze politiche del risorgimento.
Il testo di Elvira Capraro ha il merito di considerare che ad Agrigento l’architettura non è solo verticalità ma anche dialogo con la terra. Ma ci mette anche sull’avviso che gli ipogei agrigentini, oggi minacciati da crolli e incuria, richiedono un’urgente valorizzazione. Questi spazi sono pagine di un libro ancora da decifrare, dove geologia, storia e arte si fondono.
Proteggerli significa non solo salvaguardare il passato, ma anche riscoprire un modello di sostenibilità antica, perfettamente integrato nel paesaggio.
Esplorare Agrigento sotterranea è un invito a guardare oltre il visibile, dove ogni cavità racconta una storia di genio umano e adattamento. Un tesoro della Magna Grecia che attende di essere riportato alla luce, per dialogare con i templi solari che da millenni incantano il mondo.
La ricerca di Elvira Capraro è inserita nel contesto del progetto “La mediterraneità della Magna Grecia” che l’Associazione Ambiente e Cultura Mediterranea sta sviluppando con 38 ricercatori per Agrigento Capitale 2025.
https://www.ambienteculturamediterranea.it/magna-grecia-2425-relazioni
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