Loveth Kingsley è una giovane nigeriana che ha scritto un libro intitolato “La ragazza del mare”, raccontando la sua esperienza a Lampedusa.
Aveva sedici anni quando partì da Benin City verso una meta che sconosceva. Storia di Loveth Kingsley, giovane nigeriana approdata a Lampedusa tra violenze, paure e sogni infranti, che ha trovato la forza di raccontare quell’esperienza in un libro. Si tratta del memoir “La ragazza del mare” (Piemme Edizioni) da poco giunto sugli scaffali delle librerie “fresco di stampa”. Ad otto anni dal suo arrivo a Lampedusa, ora Loveth, che ha 23 anni, si dice soddisfatta della sua vita: «Vivo a Torino – spiega – studio, sto prendendo il diploma all’istituto turistico e conto di iscrivermi all’Università. Intanto lavoro come bartender e faccio volontariato in una comunità con mamme e bambini rifugiati. Non ho ancora la cittadinanza italiana, ma quest’anno dovrei riuscire a preparare tutti i documenti necessari per la richiesta. Questo libro – continua – l’ho scritto prima di tutto, per me stessa e per tutti coloro che, in qualche modo, hanno vissuto o stanno ancora vivendo una storia simile alla mia, e faticano a vedere una via d’uscita»
Se avessi saputo davvero ciò a cui andavo incontro, non penso proprio che sarei partita
“Attraversare il mare non è come fare un giro in macchina che dura qualche ora, è un viaggio di sofferenza, che mette a rischio la tua vita, che ti costringe a subire violenze e prostrazioni. Non c’è solo il mare, scuro e minaccioso, con le sue cento teste e le sue mille braccia, c’è anche tutta la strada per arrivare a quelle barche di cui non si parla mai. Sono tragitti pericolosi, che ti portano a camminare lungo zone deserte, e molti non riescono nemmeno a raggiungere le imbarcazioni: muoiono prima, uccisi e spesso picchiati a sangue. A me è andata bene, sono arrivata in Sicilia sana e salva, ma è un terno al lotto, tutto in mano a organizzazioni illegali. Se avessi saputo davvero ciò a cui andavo incontro, non penso proprio che sarei partita».
A Loveth avevano detto che, di là oltre il mare, c’era gente che l’aspettava e che si sarebbe presa cura di lei, l’avrebbe fatta lavorare e poco per volta sarebbe riuscita a saldare il debito contratto per il viaggio.
«E’ una procedura, spesso uguale per tutte le ragazze: ti raccontano che c’è un lavoro, che c’è qualcuno che ti aspetta e che poi pagherai il costo del viaggio quando potrai, scalandolo dallo stipendio che ti daranno. Ma le ragazze sono fatte venire in Europa solo per la prostituzione. Ti fanno fare un rito vudù e quando arrivi e capisci che quello che ti aspetta è vendere il tuo corpo rischi di non poter rifiutare: ti minacciano, dicono che faranno del male a te e alla tua famiglia, ti terrorizzano».
Che cosa si sente di consigliare a tante altre sue coetanee che pensano di partire?
«Oggi direi loro di non partire. Se avessi saputo di tutto quel tragitto che avrei dovuto affrontare, non mi ci sarei messa: non è detto che arrivi viva e, in quel tragitto, vedi e vivi delle cose orrende. Se dovessi dare un consiglio, direi di mettersi in viaggio solo per vie legali, organizzando un visto, comprando un volo. So bene che per farlo ci vogliono soldi, so che i Paesi europei, per noi africani, hanno regole strette, ma quello è l’unico modo, l’altra strada è un inferno».
Di quella lunga traversata, alla giovane nigeriana è rimasta la paura del mare. «Il mare mi ha paralizzata. Io non sapevo nuotare e anche oggi, che pure ho preso qualche lezione in piscina, davanti al mare mi blocco. Sto in spiaggia, ma non riesco a entrare in acqua. La paura è ancora troppa! I primi due anni li ho passati in comunità e devo dire che ho incontrato una signora che mi ha fatto sentire accolta quasi come fossi una figlia. Mi hanno aiutata a studiare l’italiano, mi hanno accompagnata verso l’autonomia, insegnandomi un lavoro. Oggi vivo in un appartamento con una coinquilina che ancora conosco poco, ma prendere un alloggio da sola, a Torino, non sembrava cosa possibile: a parte i prezzi, è difficile che affittino a una ragazza africana. Al telefono mi dicevano di sì, poi quando vedevano che ero nera non mi davano l’appartamento, qualche volta con delle scuse, altre volte in modo diretto: “Sei africana, quindi, mi spiace, ma niente casa”».
LORENZO ROSSO
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