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Home » Sport e tempo libero » Quelli del campetto: Figli di un dio minore o depositari del vero spirito del basket?    

Quelli del campetto: Figli di un dio minore o depositari del vero spirito del basket?    

22 Aprile 2018
in Sport e tempo libero, evidenza, fotoracconti
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Quelli del campetto: Figli di un dio minore o depositari del vero spirito del basket?    

di Michele Bellavia

C’è un luogo che può darti emozioni e nel quale immergerti senza pensare ai problemi quotidiani. Questo luogo non è uno stadio dove ti sei recato per assistere ad un evento, come un concerto o una partita di calcio…questo luogo è un campetto di basket.

Il campetto, in Italia, e prima ancora negli USA dove lo chiamano playground, è un modo per distrarsi dai problemi di tutti i giorni, e per fare nuove amicizie con persone che, senza il basket, non avresti mai conosciuto.

Alzi la mano chi, da appassionato di questo sport, non è stato in un playground? Ah! Scusate, volevo dire campetto.

Quando andavo al liceo e, in maniera molto dilettantistica (così come ancora oggi), praticavo questo sport, organizzavamo sempre una partita. Ad Agrigento, l’unico campetto, era quello all’interno della Villa del Sole.

Non mancava occasione che, o per uno sciopero scolastico o per una vacanza, si decidesse di andare a giocare lì, grazie anche al fatto che la villa fosse ubicata in pieno centro. Oggi questo non è più possibile. Da metà anni ’90 fino ai giorni nostri, infatti, il campetto ha subito diverse conversioni, prima calcio a cinque, poi il ritorno al basket e infine, nuovamente calcio a cinque.

L’altro campetto era quello all’interno del liceo scientifico “Leonardo”. Ma qui, per accedervi, dovevi scavalcare la recinzione. A quel tempo, non rischiavi niente, non esisteva la videosorveglianza, per cui una volta dentro, giocavi tranquillamente. Oggi è praticamente impossibile, a meno che qualcuno non voglia prendersi una denuncia. Altri tempi, appunto.

E arriviamo ai giorni nostri, un’altra era geologica (almeno per chi scrive), caratterizzata anche dalla circostanza che molti giovani preferiscano rimanere, sempre più spesso, tra le mura domestiche davanti ad un tablet o ad uno smartphone, piuttosto che uscire fuori. Ebbene, oggi l’unica possibilità è quella di muoversi di una decina di chilometri dalla città, in direzione della vicina Porto Empedocle, e rifugiarsi nell’ultima enclave rimasta per i “baskettari senza rimedio”, ovvero, i due campetti antistanti il PalaMoncada.

Qui, poco importa che ci sia freddo d’inverno (per fortuna poco a queste latitudini) e caldo d’estate (purtroppo tanto). Qui, arrivi, parcheggi il motorino o la macchina, e puoi fare due tiri a canestro, sognando di emulare quello che i professionisti fanno dentro l’attiguo palasport.

Puoi decidere di avventurarti da solo e, se sei fortunato, trovi già qualcuno che gioca, oppure aspetti l’arrivo di altri avventori per giocare.

Uno degli aspetti più singolari, è il fatto che il campetto ha regole tutte sue: il tre contro tre, i falli chiamati “personalmente” (spesso causa di discussioni), la tabella dichiarata, la lotteria del tiro per decidere il primo possesso… sono alcune delle regole create da chissà chi e tramandatesi nel tempo.

Nel campetto, si finisce inevitabilmente per imbattersi in giocatori dalle più svariate “abilità”. Una cosa che impari in fretta è che se chiedi a uno qual è il suo livello di conoscenza del gioco, lui, secco, ti risponde: “Compà non so giocare, sono scarso” e poi, poco ci manca che schiaccia a canestro.

Il campetto è il luogo in cui, grazie al merchandising NBA, qualcuno, con indosso la canotta dei Lakers, fa rivivere le prodezze di Kobe e Shaq; oppure qualcuno sfoggia un paio di Jordan sognando di emulare le prodezze di Michael;  oppure qualcuno con la mano particolarmente calda al tiro, si ispira al micidiale Steph Curry, o ancora, qualcuno abile nel cross-over ti ubriaca come Allen Iverson.

Ma questi, possono essere anche dettagli di poco conto. Perché il campetto abbatte ogni barriera: giovani e meno giovani, vecchie glorie del parquet e dilettanti, ognuno con il proprio background culturale, il proprio stile, tutti si battono come se non ci fosse un domani, ma tutti con una cosa in comune, ovvero gli occhi e lo sguardo rivolti verso quell’anello e quella retina quasi come se fossero un pianeta da conquistare.

Il bello è che… è come stare in un altro pianeta.

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