LICATA. “Le testimonianze dei disabili psichici visitati fino ad ora dal neuropsichiatra Francesco Vitrano non sarebbero utilizzabili al processo”. L’inchiesta “Catene spezzate”, che nel gennaio di due anni fa ha fatto scattare quattro provvedimenti cautelari, rischia di restare ferma al palo.
Gli indagati sono Salvatore Lupo, 40 anni di Favara; Caterina Federico, 33 anni di Licata; Angelo Federico, 30 anni di Licata; Domenico Savio Federico, 25 anni di Licata; Giovanni Cammilleri, 26 anni di Licata; Salvatore Gibaldi, 39 anni, nato a Gela ma residente a Licata, Angela Ferranti, 49 anni di Licata; Maria Cappello, 46 anni di Licata.
Per la seconda volta a distanza di cinque mesi, è stato ascoltato il neuropsichiatra, nell’ambito dell’incidente probatorio che si sta celebrando davanti al gip Alessandra Vella.
Vitrano ha esaminato altri ospiti della struttura arrivando alla conclusione, riferita ieri in aula, che le loro condizioni psichiche sono tali da non rendere utilizzabile come prova la loro testimonianza.
Uno degli episodi principali al centro dell’inchiesta è stato immortalato dalle telecamere dei carabinieri piazzate di nascosto dopo essere entrati con un pretesto nella struttura gestita dalla cooperativa “Suami” insieme ai pompieri simulando una fuga di gas. Nelle immagini si vede un paziente legato al letto con una catena. Ed è stato proprio questo episodio a suggerire agli inquirenti il nome del blitz “Catene spezzate”.La tesi della difesa (nel collegio gli avvocati Salvatore Manganello, Linda Sabia, Andrea Arrabito, Santo Lucia, Antonio Montana e Domenico Russello) è che la catena sia stata usata “per contenere il disabile ed evitare che commettesse gesti autolesionistici”. La stessa pratica, sempre secondo la loro versione, sarebbe utilizzata nei reparti di psichiatria. Agli atti ci sono anche altri atti di indagine, fra cui alcuni video che proverebbero le presunte violenze ma senza la testimonianza delle vittime sarebbe complicato istruire il processo. La struttura di Licata, secondo quanto ipotizzano gli inquirenti, sarebbe stata trasformata in un lager e gli ospiti sottoposti a continue violenze. Otto gli indagati. Si tratta di operatori in servizio con vari incarichi della struttura di accoglienza. Si torna in aula il 23 maggio.
LE ACCUSE A CARICO DEGLI INDAGATI
Caterina Federico, Angelo Federico, Domenico Savio Federico, Giovanni Cammilleri, Salvatore Gibaldi, Angela Ferranti, Maria Cappello: in concorso tra loro, Caterina Federico, quale assistente sociale responsabile di fatto della gestione della sede di Licata della “Suami Onlus”, e gli altri quali operatori in servizio presso la medesima struttura, con numerose e reiterate condotte sottoponevano alcuni minorenni e/o inabili psichici affidati per ragioni di cura, vigilanza, assistenza e sostegno psicologico alla comunità, a maltrattamenti di natura fisica e psicologica tali da cagionare in loro gravi sofferenze ed umiliazioni. “Senza alcuno scrupolo per la condizione di fragilità psico-fisica dei minori con deficit mentali e degli altri ospiti disabili, ricorrevano sistematicamente all’inflizione di punizioni come il digiuno, il divieto di contatti telefonici con i familiari, la reclusione all’interno delle stanze da letto; sottoponevano quotidianamente un ospite a gravose limitazioni della propria libertà personale tenendolo il giorno e la notte legato con catene in ferro alla struttura metallica del proprio letto; mantenevano precarie condizioni igienico sanitarie all’interno della struttura utilizzando acque contaminate da batteri coliformi; distribuivano per il consumo alimenti in cattivo stato di conservazione e scaduti“. Fatti commessi a Licata, tra dicembre 2014 e febbraio 2015.
Salvatore Lupo, amministratore unico della “Suami Società Cooperativa sociale – onlus” è accusato di non aver impedito agli operatori di sottoporre alcuni ospiti ai maltrattamenti di natura fisica e psicologica; e di tenere legato mediante una catena in ferro assicurata con lucchetto alla struttura metallica del proprio letto un altro ospite.
L’inchiesta, coordinata dall’allora procuratore aggiunto di Agrigento, Ignazio Fonzo, e dal sostituto Alessandro Macaluso, è iniziata grazie alla segnalazione degli insegnanti della scuola che frequentavano i disabili. Sono state le professoresse ad accorgersi del malumore dei ragazzi. Poi l’elemento che ha convinto la preside a chiamare i carabinieri: il disegno di uno di quei ragazzi in cui veniva raccontata una storia fatta di streghe, bambini picchiati, gente legata con le catene e terribili violenze. Le insegnanti hanno così registrato con un telefonino i racconti degli alunni, hanno fotografato le ferite sui loro polsi e hanno passato tutto il materiale ai militari dell’arma della compagnia di Licata. Le indagini, condotte con intercettazioni telefoniche e interrogatori, hanno così svelato il terrore che copriva quel centro per minori. Bambini incappucciati e legati alle sedie dopo essere stati scoperti a mangiare una merendina fuori dall’orario consentito, altri legati con catene e lucchetti ai letti per non aver finito il pranzo, altri costretti a mangiare i propri escrementi. Fatti che gli indagati hanno più volte provato a nascondere quando hanno capito che le insegnanti avevano raccontato tutto ai carabinieri.
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