Doveva lasciare un segno. Doveva cambiare passo. Doveva essere l’anno della svolta.
Agrigento Capitale italiana della Cultura è finalmente alle spalle e la domanda, quella vera, arriva adesso: che cosa è rimasto?
Eventi, tanti. Qualità alterna. Presenze istituzionali, palchi, loghi, inaugurazioni. Ma una capitale non si misura con il calendario, bensì con ciò che resta quando i riflettori si spengono. E qui il bilancio diventa inevitabilmente più scomodo.
Perché la sensazione diffusa è quella di una Capitale indolore: non ha fatto male a nessuno, non ha scosso equilibri, non ha rotto abitudini. Non ha costretto la città a ripensarsi davvero. Tutto è scivolato via senza attrito, senza conflitto, senza quella sana fatica che accompagna i cambiamenti veri.
Gli eventi ci sono stati, sì. Ma per chi?
Spesso per addetti ai lavori, per cerchie ristrette, per chi già frequenta la cultura. Poco coinvolgimento reale dei quartieri, delle periferie, dei giovani, delle energie che vivono Agrigento ogni giorno e non solo nei comunicati stampa. La cultura, quando è davvero capitale, allarga, non seleziona.
E poi c’è il nodo che nessuno può evitare: sono stati spesi milioni. Pubblici. Importanti. Diffusi in mille rivoli, spesso senza che la città ne avesse piena percezione. Senza una narrazione chiara dei risultati. Senza indicatori comprensibili. Senza un “prima” e un “dopo” evidente.
Quando si spendono risorse così rilevanti, l’effetto deve essere visibile, tangibile, misurabile. Altrimenti resta solo la sensazione di un’occasione consumata senza accorgersene.
La cultura non è solo spettacolo. È infrastruttura, accessibilità, servizi, visione. È mettere chi arriva nelle condizioni di raggiungere la città, di muoversi, di restare. È lasciare competenze, reti, progettualità che continuano a camminare anche quando l’etichetta “Capitale” non c’è più.
Agrigento aveva una possibilità storica: usare quell’anno come leva, non come vetrina. In parte è successo, in larga parte no. E dirlo non è disfattismo, è onestà. Perché le città crescono solo se sanno guardarsi allo specchio senza autoassolversi.
Ora resta il silenzio dopo l’evento.
E in quel silenzio la domanda rimbalza più forte di prima: questa Capitale che cosa ci ha lasciato davvero?
Se la risposta fatica ad arrivare, allora sì, qualcosa non ha funzionato. E far finta di niente sarebbe l’errore più grande.
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