«Gli dobbiamo fare due buchi alle gambe… deve finire all’ospedale. Una cosa a volo». Era il giugno scorso quando, nel carcere, venne intercettata una conversazione tra un detenuto empedoclino per reati di mafia e un commerciante agrigentino. Il contesto è chiaro: l’aria tesa tra i clan di Porto Empedocle e quello di Agrigento/Villaseta stava per sfociare in un’aggressione armata.
Il motivo? Pochi giorni prima, qualcuno aveva incendiato un furgone appartenente al commerciante. Il sospetto ricadde immediatamente sul gruppo avversario. Da qui, l’ordine: colpire uno degli uomini di Villaseta, gambizzarlo per dare un segnale. Un piano che non si è concretizzato solo grazie alla mirata presenza dei carabinieri nella zona, che hanno evitato l’agguato.
Le due storiche famiglie in provincia di Agrigento
L’indagine ha acceso i riflettori su due storiche famiglie mafiose. Da un lato, il clan di Porto Empedocle, guidato da Fabrizio Messina; dall’altro, la fazione di Agrigento/Villaseta, capeggiata da Pietro Capraro e dal suo gruppo fidato, composto dagli indagati Gaetano Licata, Gabriele Minio e Guido Vasile. Questi ultimi sembrano aver approfittato della detenzione al 41 bis dello storico capo cosca, Antonio Massimino, per guadagnare terreno.
Una guerra che affonda le radici nel passato
La tensione tra i clan non è cosa nuova. Giuseppe Quaranta, collaboratore di giustizia di Favara, aveva già raccontato della storica divisione in due schieramenti all’interno di Cosa nostra agrigentina: uno vicino alla linea dei Fragapane e l’altro a quella di Giuseppe Falsone. Una rivalità risalente ai tempi in cui Francesco Fragapane, figlio di Totò (storico capo della mafia agrigentina), cercò di eliminare Falsone e consolidare il potere.
Cosa nostra agrigentina ha dimostrato nel tempo una straordinaria capacità di tessere alleanze nel mondo della politica e dell’imprenditoria, come dimostrano i numerosi blitz degli ultimi anni. Oggi, però, è l’escalation di intimidazioni a destare preoccupazione.
La recrudescenza di violenza e l’uso di armi da guerra
Secondo l’ultima annotazione dei carabinieri del 2 dicembre scorso, la situazione è allarmante. Si parla di una recrudescenza di atti intimidatori, spesso compiuti con armi da guerra, la cui disponibilità tra gli indagati appare “pressoché illimitata”.
Un altro elemento inquietante riguarda lo “sconcertante utilizzo” dei telefoni da parte degli uomini d’onore detenuti, o di soggetti a loro vicini. Questo sistema consente loro di mantenere i contatti con i sodali in libertà, impartendo ordini e direttive come se nulla fosse. Un potere di comando che neanche le sbarre sembrano riuscire a scalfire.
Dinamiche da decifrare
Le dinamiche della guerra tra i clan di Porto Empedocle e Agrigento/Villaseta sono ancora in evoluzione. Resta, però, la certezza di un sistema capace di rigenerarsi e di alzare pericolosamente l’asticella della violenza.
Un territorio in cui le pattuglie dell’Arma e le attività investigative restano l’unico argine tra la criminalità organizzata e la popolazione.
Segui il canale AgrigentoOggi su WhatsApp
