Un viaggio nel Natale agrigentino del passato attraverso le parole dello storico Calogero Ravenna: dalla Novena ai presepi artigianali, dalle specialità culinarie alle tradizioni popolari, fino a una riflessione sull’autenticità delle decorazioni moderne.
“La nuvena, che precede il Santo Natale, come in quasi tutta la Sicilia, è molto caratteristica. Non c’è strada che non abbia ’na figuredda (icona) adorna di fronde di arancìu (arancio), di murtidda (mortella), di fiori, di candele.
Il giorno sedici sera ha inizio la novena.
Che gran festa per i fanciulli!
Si va in giro dietro i ciaramiddara (suonatori di cornamuse) o dietro li sunatura. E là, dove c’è ’na figuredda illuminata, si ci ferma e, al dolce caro suono della ciaramella, accordata dal circhetta (cerchietto) e dall’azzarinu (acciarino), si canta ’a litania al Bambinello Gesù.
Intanto si bruciano fasci di ristaccia (ristoppie). All’ilare vampa i fanciulli vociano, sparano moschetta, cicchicciacchi e furgaruna, saltando allegramente sulla brace, finché coi randelli non la sollevano in alto, spargendo nell’aria un turbinio di faville d’oro.
Come sono belle li ninnareddi (ninne nanne), che
uomini e donne, fanciulli a fanciulle del popolo
innalzano a Gesù Bambino! Esse ci sollevano e ci
fanno respirare un’aura di bontà!
Rievochiamone alcune:
A la notti di Natali
Nni nasci Iti Bammineddu,
E nasci ‘m mezza la paglia
Mmezzu la uo’ e l’asinedda.
Bammineddu picciliddu
’U me cori ‘u voli iddu,
Iddu chianci ca lu voli
Bammineddu arrobba cori.
San Gisippuzzu, lu vicchiareddu,
E la Vergini Maria
Ci dicianu quant’era beddu
Chiù la cori si grapiva.
Tra ‘na gruttidda cc’è natu Gesù,
Ca di la chiantu accardari un si pò,
O Virginedda v’accordalu Tu,
Facci na naca nni lù cori tò.
La naca è fatta pi jri a vovò
Bamminu Gesù, nun chianciri chiù,
Bamminu Gesù, nan chianciri chiù.
e molte altre ancora tramandateci di generazione in generazione”.
Così lo storico agrigentino Calogero Ravenna poco meno di un secolo fa descriveva la tradizione della Novena ad Agrigento, incipit delle molte altre tradizioni natalizie che caratterizzavano gli ultimi giorni dell’anno.
Una tradizione che per fortuna si rinnova ancora oggi per le strade del centro storico, anche se ha perso alcuni dei momenti descritti da Ravenna, come le ristoppie. Ma certamente la lacuna più grave riguardo alla celebrazione della Novena agrigentina è costituita dalla scomparsa della rappresentazione dei drammi pastorali, del Canonico Giambattista Castagnola, autore di una pastorale “La grutta di Betlem”, pubblicato nel 1871, che veniva rappresentata spesso fino a qualche decennio fa negli oratori in particolare.
La scena della Natività nelle famiglie agrigentine prendeva vita grazie ai presepi, che ancora oggi comunque ammiriamo nelel cheise e anche in un agolo della casa di molte famiglie. I presepi di un tempo presentavano in genere una montagna, nella quale si apre la grotta con la Sacra famiglia, il bue e l’asinello. Per le rocce si usa ’u suvaru (sughero) che le imitava bene; qua e là si collocano casette, torri, capanne. Qualcuno in tempi andati collocava anche ficudinnia (opunzie) di argilla dipinta. Cu’ li cacazzi (frammenti di pietra porosa residuo della cottura al forno di oggetti di argilla), con creta e con sabbia si costruivano le strade, viottoli; con pezzi di vetro si imitano laghetti e ruscelli. Abili artigiani del tempo costruivamo e vendevano il mulino a vento. Poi vi si dispongono i pastori. Dinanzi alla bocca della grotta u ciaramiddaru, e i pastori che offrono doni. Altri pastori e pastorelle si spargono per le rocce: il cacciatore col fucile, il dormiente all’aperto, il guardiano delle torri, la lavandaia al fiume, lo spaventato, ecc.; altri pastori nell’altra grotta attendono a fare ricotte.
Sempre Calogero Ravenna ci racconta il Natale di un tempo: “La Notte di Natale si accendono le lampadine che illuminano la scena del presepe; è bello vedere i vari personaggi, azionati da occulti congegni, muoversi ed attendere alle loro occupazioni.
Di poi si va a cena. È una cena allegra, anche se povera. In essa possono mancare, e mancano, difatti, molte cose; ma non mancheranno il tradizionale baccalà frittu o mbiancu o agliotta, i carduna e li vrocculi fritti e a pastetta e ’a spinaggia assassunata. La pietanza caratteristica della serata è però a capunatina. Una pietanza molto complicata, ma che le buone massaie preparano con mani amorose.
Sulla tavola, coperta di candido lino, a tuvaglia di li festi, si trova, per l’occasione, u scaccia, ciciri calliati, mennuli atturrati e qualche buon mazzo di ramurazzi (ravanelle).
Caratteristici in questa festa ’ i purciddati cu’ i passati e i ficu, i mastazzoli e rami di meli. Le famiglia, a seconda delle condizioni sociali, preparano in casa i così dì Natali, che costituiscono un particolare godimento sia per i fanciulli che per gli adulti.
Alla festa di Natale ci si prepara da gran tempo. La buona massaia pensa a far ingrassare i capuna (i capponi), che serviranno per il banchetto d’u jornu dì Natali.
Doppu Natali lu friddu e la fami – dice un antico proverbio —-ma il popolo non ci bada affatto”.
Il lettore leggento questo testo può considerare cosa ancora sopravvive e il molto che è tramontato anche nella tradizione culinaria agrigentina.
Ma vogliamo concludere con una riflessione: perché scegliere le luminarie per l’illuminazione delle strade cittadine ? Per carità, sono carine, ma sembrano fuori contesto. Non sarebbe stato più opportuno scegliere qualcosa di tipico, che richiami le tradizioni dell’artigianato siciliano? I nostri archi luminosi in legno, tipici delle feste patronali, sono romantici, e perfino Dolce & Gabbana, la Rinascente a Milano o il Verdura Resort hanno voluto riproporli per trasmettere sicilianità. Noi, invece, mostriamo luci con abeti e la scritta “Auguri”, in stile alieno rispetto alle nostre tradizioni. Manca solo il Polar Express e Babbo Natale in slitta, e lo stereotipo è completo. Possiamo riportare in vita qualcosa che sia più vicino al nostro sentimento e alla nostra cultura agrigentina ?
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