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Home » Curiosità » 1832: L’invasione delle cavallette e la febbre petecchiale ad Agrigento

1832: L’invasione delle cavallette e la febbre petecchiale ad Agrigento

Elio Di Bella Di Elio Di Bella
28 Dicembre 2024
in Curiosità
cavallette

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Agrigento, 1832. Un’invasione di cavallette devasta le campagne, seguita da una terribile epidemia di febbre petecchiale. Lo storico Giuseppe Picone racconta la calamità e le reazioni della popolazione, tra disperazione, interventi religiosi e accuse al governo borbonico.

«Al fiorire della stagione, una pubblica calamità afflisse Girgenti e i territori vicini. Un nembo denso, sterminato di cavallette piombò sui nostri colti, sui nostri giardini, e divorarono le ortaglie e tutto ciò che loro si parava dinnanti. La Comune impiegava vistosi capitali, onde sterminarle, ma non facevasi che togliere dal mare una goccia d’acqua .
I proprietari costretti a dar la caccia alle locuste, conducevano
l’opera di moltissimi, che le raccoglievano per mezzo di larghe tende e sotterra le seppellivano. La grande conserva scavata lungo il confine della Passeggiata, fu sepolcro a milioni di cadaveri di quelle voraci bestie, che spargevano ovunque la desolazione e il terrore!
Le cavallette aveano già deposte le uova nei terreni sodi. E qui maggiori spese a disotterrarli, e qui l’esaurimento delle risorse comunali e l’appello al concorso delle casse provinciali dell’Isola e qui il fallimento di molti proprietari e la ricchezza di pochi imbroglioni, che pescarono nel torbido dell’amministrazioni di vaste tenute ai medesimi affidate.
La novella generazione di quelle bestie terribili venne alla luce, e investì l’interno delle case e le strade. Era uno dei flagelli dei tempi di Faraone! La strada da Porta di Ponte ai Cappuccini gremite di locuste, che bulicavano, che ribollivano sotto i miei piedi, era spettacolo spaventevole e nauseante!
Un turbine verso la seconda metà di maggio le raccoglie in un punto, le slancia nell’alto del mare e le affoga!! Le campagne così furono libere da quel desolante flagello, che chiamò sul nostro popolo una mortale febbre epidemica, che fu appellata petecchiale».
Con questa immagine apocalittica lo storico Giuseppe Picone, agrigentino, autore delle celebri Memorie storiche di Girgenti descrive i primi momenti di una delle più difficili prove vissute dalla Città dei Templi nel secolo scorso.
Non era la prima volta che nelle nostre campagne agrigentine comparivano quelle voraci bestie, ma nell’anno 1832 l’evento ebbe caratteristiche impressionanti e sfociò in un’epidemia che colpi gran parte della popolazione. Intervenne pure la religione con tutti i suoi mezzi per fermare l’invasione poiché le pubbliche autorità da sole non riuscivano a debellare il fenomeno.
Il Vescovo di Girgenti, Monsignor Pietro Maria D’Agostino fece diffondere un manifestino in cui invitava i fedeli a rivedere la propria condotta morale, poiché quella piaga nasceva certamente dalla pessima vita che conducevano allora gli agrigentini e che aveva fatto adirare il buon Dio.
«Stan tutte abbandonate le scandalose tresche, le usure, la maldicenza, le false massime introdotte contro la Religione, onde così render placata la Maestà del Signore, con allontanare i castighi tutti che ci sovrastano?
Anzi all’incontro con la somma nostra indicibile amarezza ci veggiamo afflitti da pericolosissime malattie, dalla fame e nelle campagne dal terribile flagello delle cavallette, e che di già adonta di tutta l’energia usata da questo sig. Intendente per lo estirpamento, si son a meraviglia sviluppate a milioni», così scriveva il prelato di Girgenti.
Riformare i costumi: penitenza e preghiere per placare Dio
Dinanzi a tutto ciò occorreva riformare i costumi e fare penitenza «colle vere confessioni», oltre che adempiere tutti all’obbligo del precetto pasquale per non rendere più pesante la mano di Dio sulla popolazione di Girgenti.
Naturalmente occorreva anche chiedere l’intercessione di San Gerlando, con un triduo, «onde così mercé la sua protezione, che in ogni occorrenza abbiamo sperimentato valevole placarsi la Maestà del Signore, con liberarci da tali flagelli, con cui Dio sdegnato ne tempi di sua collera ha voluto punire i delitti degli uomini »
L’invasione delle cavallette portò con sé altre calamità che si diffusero rapidamente in città, a causa delle pessime condizioni igieniche.
Nella sua relazione «Sulla febbre epidemica petecchiale regnante in Girgenti nell’anno 1833» il dottore Paolo Vassallo e Caruso di Favara ha scritto che il morbo si diffuse «per il consorzio delle persone sane con le infette per trovarsi specialmente in quelli abituri ristretti, e non. ventilati i quali impedivano la cotanta necessaria rinnovazione dell’aria libera; fu indi il morbo da questi trasportato nelle case delle persone agiate».
Diretta conseguenza della epidemia fu la carestia, che portò in quei mesi a Girgenti molti poveri dei paesi vicini che « piombarono in questo capovalle per accattarsi il pane, onde riparare alla fame che divoravali; ma pressati essendo da tanto bisogno dovettero darsi de’ giornalieri sussidi a tal classe d’indigenti, né offrendo la nostra città luoghi comodi e ventilati, bisognarono per molti giorni raccogliersi in locali non perfettamente adatti all’uopo; e quindi cotal circostanza dovette concorrere qual’una delle principali concause a favorire quel fomite che in progresso si è sviluppato. Non posso poi passare sotto silenzio che la sepoltura colle esalazioni hanno più d’ogni altro renduta l’aria impura e pregna di deleteri miasmi nocivi all’economia vivente».
Non mancava però anche in questa occasione chi diffondeva voci allarmistiche ed antigovernative sostenendo che fossero i funzionari del governo borbonico, le spie e i militari a «impestare» l’aria diffondendo l’epidemia. Voci di questo genere circoleranno soprattutto cinque anni dopo, nel 1837, quando il colera provocherà centinaia e centinaia di morti a Girgenti, come in tutta la Sicilia. In quei terribili mesi, a stento si riuscì ad evitare una insurrezione popolare di grandi proporzioni.


Elio Di Bella
Elio Di Bella

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Tags: cavalletteGirgenti
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