POTO EMPEDOCLE. E’ arrivata in redazione una mail di una nostra lettrice che si è voluta soffermare sulla situazione di degrado che si registra a Porto Empedocle.
ECCO LA RIFLESSIONE: ‘Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova.’ Sul fatto che di posti belli il mondo è pieno siamo tutti d’accordo. Sul fatto di nascere, crescere e vivere nel proprio posto nel mondo un po’ meno.
Il punto in questione è una scelta, una strada che chi decide di percorrerla corre il rischio di sapere cosa si lascia ma non sapere cosa si trova.
Due sono le logiche alla base di chi la prende: una è relativa all’ambizione, scegliendo di perseguire quella strada, allontanandosi per ovvie ragioni dalla propria casa, dai propri affetti con alle spalle i sacrifici di una famiglia che punta alla realizzazione massima del membro che ha deciso di partire; l’altra è relativa alla disperazione, stato d’animo oggettivo e reale di chi non ha più alcuna speranza in quanto il luogo di appartenenza ha tradito quelle speranze e aspettative mettendo il componente della famiglia (o famiglie intere) nelle condizioni tali da preparare i bagagli e partire per una nuova realtà in grado di garantire un presente ed un futuro migliore.
Entrambi i casi rappresentano, nel bene e nel male, un colpo al cuore, un vuoto incolmabile per chi se ne va e per chi rimane. Entrambi conservano vivamente l’immagine perpetua della propria città natale che, tanto bella quanto martoriata, contiene tutto un universo composto da affetti, luoghi, colori e sapori che assumono le sembianze dei propri cari.
Questi cari rimasti lì. Questi cari che vivono 365 giorni l’anno la città svuotarsi e riaccendersi quei due mesi estivi e per le festività.
In quella città dove, i più fortunati possono ritenersi tali da arrivare a stento a fine mese col lavoro precario che trovano o si inventano pur di rimanere.
I meno fortunati (e mi riferisco alla mia generazione che fa leva sugli anni ‘80) restano, stringendo i denti, andando avanti e tenendo duro, votando alle elezioni la novità come segno di protesta e di speranza in un cambiamento concreto, come ultima spiaggia a cui aggrapparsi, con l’auspicio che il proprio momento prima o poi arriverà.
Ma invano e ciononostante il pensiero di mollare tutto e andare via non sfiora in alcun modo la mente degli audaci che scelgono di rimanere a vivere nel luogo in cui si è nati e cresciuti quale porto sicuro e indiscusso dove gettare l’ancora anche se il livello del mare fa vedere il fondo.
È solo a loro che va il riconoscimento di fare di quel marcio che amministra le strade della mia terra un posto vivo e migliore dove restare.
È grazie ai loro sacrifici e al loro coraggio che quei brevi periodi in cui torni a casa trascorrono come se le avversità affrontate durante l’anno non esistessero.
Ma alla domanda ‘quando scendi a casa’, segue in automatico ‘quando riparti?’ vorresti morire dentro perché pensi di essere appena arrivato a casa ma in virtù della scelta che hai intrapreso devi mettere in conto anche questo.
E come tutte le cose belle: tutto ha un inizio e una fine, cercando di godersi a pieno quei giorni felici di vacanza, trascorrere il più tempo possibile con i propri i cari, sfruttare al massimo le risorse di cui la tua città dispone e mangiare come se non ci fosse un domani.
Talvolta farnetichi anche di non tornare più alla realtà che ti sei costruito, di mollare tutto e rimanere a casa, altre volte (già dal terzo giorno di permanenza) ti sta tutto stretto, ti senti soffocare e vorresti scappare per ritornare nel luogo che ti ha accolto e ti sta dando qualcosa.
Ma poi questi pensieri passano tra l’affetto dei tuoi cari e le risate dei tuoi amici rimasti e non, rendendo quei giorni unici.
Una festa, è questo il sostantivo giusto per descrivere tutte le volte che si ritorna a casa. È una festa per quei nonni, che ritrovi sempre più invecchiati, ma felici di avere la tavola al completo di nipoti.
Una festa per quella mamma, dove anche per lei l’età avanza e i pensieri si moltiplicano, ma di fronte alla gioia di avere la casa piena tutto passa.
Una festa per quelle sorelle/fratelli che, tutte le volte che torni li ritrovi sempre più grandi, tengono il conto alla rovescia per il tuo arrivo per trascorrere più tempo possibile assieme.
Una festa continua tra quegli amici ritrovati fuori sede, che magari durante le festività principali non si è riusciti a vedere e si ha un anno di arretrati da raccontare, e per quelli in sede che aspettano tutto l’anno l’estate con ogni anno una novità diversa.
L’estate, proprio l’unica delle due stagioni che esistono nella mia terra, l’altra è l’inverno (se così si può definire!) poiché dalle mie parti le stagioni di mezzo non esistono. La bella stagione nella mia zona dura da Pasqua all’Epifania.
Settembre però arriva per tutti, assieme alla festa di San Calogero, in cui tutti gli abitanti manifestano una devozione inedita al santo e alla stessa festa, rappresentano il momento più dolente: quello dei saluti.
Ognuno ritorna alle proprie basi, ai propri i posti, alla solita vita. La festa è finita.
Tra un bagaglio da completare e un abbraccio vario c’è il pianto trattenuto da parte di un nonno o un genitore.
E mancano ancora 2 giorni alla partenza.
Tra caffè, pranzi/cene e aperitivi vari, ultimare le cose che servono da portare, saluti di amici che vanno via prima pensando che tra poco arriverà anche il tuo momento e comincia a crearsi quel magone allo stomaco, ma non cedi, vai a fare un tuffo in acqua e tutto passa.
Arriva il giorno X, sei sveglia prima della sveglia impostata, pensando a come mistificare la malinconia che hai addosso quel giorno.
Allora esci a fare l’ultima colazione con gli amici dove ci auguriamo a vicenda ‘forza e coraggio’ per i mesi che ci attendono; saluti il vicinato che è al corrente della tua partenza per arrivare all’ultimo grande pranzo di famiglia in cui la nonna sfodera il meglio di se (come sempre, ma quel giorno in particolar modo!) presentando come menù tutto il tuo cibo preferito.
Una volta concluso, cominciano i titoli di coda che partono dal cambiamento di espressione di nonno ai ‘mi raccomando’ di nonna, e mamma che non proferisce fino alla fine.
Non vedi l’ora di salire su quel l’autobus o di superare i controlli in aeroporto per liberare quel magone che dalla mattina ti blocca lo stomaco.
E salendo su quel mezzo e cominci a sentirti mancare l’aria come in apnea.
È davvero finita. Si ricomincia per tutti, e con i doveri anche le preoccupazioni per chi rimanere.
Nella misura in cui mi si viene augurato il meglio, lo stesso auguro ai miei cari che lascio a casa tutte le volte.
Quella stessa casa, la quale locatrice della macchina amministrativa piuttosto che oliare gli ingranaggi della stessa, garantendo il bene minimo indispensabile ai propri cittadini, li invita ad andare altrove verso posti più consoni alle esigenze di ciascuno.
Mi si stringe il cuore leggendo certe affermazioni, certi articoli, guardando foto di denuncia delle condizioni di degrado e incuria più totale in cui versa la mia città e soprattutto sentendo persone a me care affermare di aver perso la fiducia verso la propria città aggravata da chi la amministra.
Il passato è passato.
Il bene ha trionfato sul ‘male’ rappresentato dalla vecchia politica.
Ma questo nuovo modo di fare politica non sembra affatto tanto migliore del vecchio. Anzi oserei dire peggio poiché in nome di Onestà, Dignità, Solidarietà e tante belle parole liberiste, stanno portando tutte le realtà amministrate alla deriva più totale.
E non serve più continuare a puntare il dito, dopo due anni e ancora, dicendo che la colpa è di chi c’era prima.
Non è più una giustificazione.
È il vostro momento, siete voi a condurre i giochi e non aspettiamo altro che dei segnali di progresso e cambiamento concreto per poter apprezzare il vostro operato e magari ripremiarvi a nuove elezioni future.
La differenza si fa così, i risultati si ottengono sul campo. Con la demagogia non si va più da nessuna parte.
Sono finiti i vecchi modi di fare politica, i vecchi tempi della democrazia dei partiti non esistono più perché non esistono più dei personaggi di un certo calibro.
E con l’auspicio che le ultime generazioni conoscano tempi migliori dei miei – che di anno faccio 1994 – e che queste parole facciano il giusto percorso giungendo a destinazione.
Silvia Boccadoro